Nel 1971 nasce a Bologna il corso di laurea più trasgressivo, spregiudicato e innovativo dell’università italiana. Tra lezioni-performance e docenti superstar. E gli studenti? «Venivano da noi i troppo intelligenti o i troppo stupidi»

Ancora a mezzo secolo dalla sua nascita, narra una perdurante vulgata che:

  1. Il Dams fu una creatura di Umberto Eco.
  2. Era una fabbrica di disoccupati.
  3. Il grosso degli studenti era una manica di sfaccendati aspiranti artistoidi.
  4. Per giocare a fare la rivoluzione era perfetto, per studiare un postaccio.
  5. Se i bolognesi della dotta e grassa e rossa sui cartelli degli affitti scrivevano “No Dams, no cani”, avevano le loro ragioni.

Neanche il punto 1 corrisponde a verità. Eco arrivò sì quasi subito, da Architettura a Firenze, e forte della fama di “Opera aperta” e “La struttura assente”, nonché di un’invidiabile capacità di affabulazione, ne divenne presto colonna portante. Ma non lo inventò lui, il Dams.

 

Anzi, a sentire Renato Barilli, assistente di Luciano Anceschi a Estetica che partecipò fin dalle prime turbolente riunioni al quarto piano di via Zamboni 38 all’ideazione del nuovo corso di laurea, «all’idea di un concerto di tutte le arti non verbali Umberto neanche ci credeva granché: appena gli fu possibile si sganciò dal corpo centrale e costruì con il gruppo a lui più vicino un indirizzo di Comunicazione. Si pose la questione se non si dovesse aggiungere la “c” e cambiare l’acrostico, lui rispose ridendo: «Non serve, già adesso i bolognesi con la loro “s salata” dicono Damsc!»

 

Esempio di come la storia si compie per strade traverse, il corso di laurea più trasgressivo, spregiudicato, irritante per l’establishment accademico fu tutta colpa di un grecista, Benedetto Marzullo, gran traduttore di Aristofane, potentissimo burocrate per il suo ruolo chiave nel Consiglio superiore della Pubblica istruzione: riuscì così a farsi approvare in pochi mesi decine di nuovi insegnamenti mai visti in un’aula, laddove il placet ministeriale, nient’affatto scontato, richiedeva anni. Secondo l’ironica definizione che ne diede Mario Bortolotto, docente al Dams, illustre critico musicale e nota malalingua, Marzullo era afflitto dalla “vergogna dell’aoristo”, al pari dei poeti che, in quegli anni di scioperi e lotte proletarie, si vergognavano di limitarsi a inanellare versi.

 

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Convintosi che Filologia classica non aveva più nulla da indagare, Marzullo gira l’Europa, s’innamora della Scuola di Ulm erede del Bauhaus ai cui statuti attingerà per disegnare il Dams, conclude che il vero genio dell’Italia da cinquecent’anni è in quelle discipline non verbali, arti visive, musica, teatro, poi anche cinema, tenute ai margini nelle facoltà di Lettere e filosofia, in cui pure insegna, a Bologna, dal 1967. Con lui ci sono Luciano Anceschi, scuola Husserl e Banfi, Ezio Raimondi, filologo, Francesco Arcangeli, storico dell’arte allievo di Longhi: il nucleo fondante del Dams.

 

Si scontrano subito. Grimaldello per ridisegnare i saperi dev’essere la Fenomenologia, perora Anceschi, ma la spunta Marzullo, ed è Semiotica (dell’arte, della musica, del teatro) a scalzare la vetusta dizione Storia. Via anche Letteratura, solo Inglese, Francese etc. Racconterà Eco di aver accettato «a patto che a breve fosse istituita la cattedra di Semiotica»: sarà, la sua, la prima al mondo.

 

Si arruola, a chiamata diretta, chi ha dato prova di sé nella pratica artistica, teatrale, musicale, fuori dalla gabbia dei curricula accademici. Per il teatro, Luigi Squarzina, che a Taormina ha messo in scena Aristofane tradotto da Marzullo, e Gianni Polidori lo scenografo. Tomás Maldonado, tra i fondatori della Scuola di Ulm, per Progettazione ambientale, altra etichetta nuova di zecca. Gianni Celati lo scrittore e anglista. I poeti Alfonso Gatto e Alfredo Giuliani, Gruppo 63 come Lamberto Pignotti, poeta visivo e dei chewing-poems, a insegnare Tecniche pubblicitarie.

 

Per la musica il Dams diventa come Bayreuth ai tempi di Wagner: Franco Donatoni e i suoi “automatismi combinatori” nella composizione, Aldo Clementi e la musica elettronica, Roberto Leydi il padre dell’etnomusicologia italiana che una laurea neanche s’era mai curato di prenderla, Luigi Rognoni il musicologo, Giampiero Cane prima cattedra europea di Jazz.

 

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«A tenere lezione», racconta Giuseppe Liotta, Teatro moderno e Regia, «portavo gli attori e registi in scena al Duse: Carmelo Bene, Tino Buazzelli, Gabriele Lavia che dalle 11 di mattina finì di dialogare alle 7 di sera in un’aula occupata manu militari dagli studenti. Vennero Moravia, Maraini, Godard, Julian Beck e Judith Malina del Living Theatre, Bernardo Bertolucci alla proiezione di una copia clandestina di “Ultimo tango a Parigi”, allora al rogo». E Eugenia Casini Ropa, nel ‘74 prima laureata al Dams, dove insegnerà Storia della danza e del mimo: «Docenti in sandali e maglietta correvano all’ultimo istante a comprarsi una giacca per la sessione d’esami. Le lezioni erano fantastiche performance, e nelle frequenti cene di lavoro, insieme studenti e docenti, Eco e Leydi si sfidavano a raccontare le loro goliardiche avventure di studiosi, recitare, cantare, musicare in canzonette la storia della semiotica».

 

Ancora nel 1980 una memorabile disfida tra Umberto Eco e Luciano Nanni, scuola Barilli e cattedra di Estetica, nel salone biblioteca affollato dalle 18 per cominciare alle 21, spacca in due le tifoserie, echiani strutturalisti e nanniani funzionalisti, stessi studenti ai quali Nanni spiegava che l’arte ha i suoi specifici statuti e Eco che l’anomalia era secondaria, arte e comunicazione pratica sempre sistemi di segni sono. «Umberto arriva con un quarto d’ora di ritardo, nel retro ha appena finito di scrivere 23 pagine di critica, nel caldo afoso stronca l’uditorio leggendole a velocità supersonica», racconta Nanni.

 

L’altro punto cruciale su cui due anime si scontrano già agli esordi, che resterà elemento di irrisolta doppiezza e determinerà una sorta di strabismo nella percezione del Dams, è: chi dobbiamo formare e a qual fine? Racconta Giampiero Cane che «da noi a Musica arrivavano sia studenti dal Conservatorio sia diplomati al liceo ignari di diesis e bemolle. Dovevamo laurearne una decina l’anno, prepararli a lavorare con le orchestre, i teatri, le case discografiche, come anch’io ritenevo, o fornire almeno le competenze di base a una folla che al massimo avrebbe poi insegnato le sette note in una scuola media?»

 

L’impetuoso e inatteso esplodere delle iscrizioni, numero chiuso è all’epoca parolaccia impronunciabile, rende fatua la diatriba. «Ipotizzavamo un periodo di sperimentazione con 120 studenti come nel primo anno, massimo 150», conteggia Roberto Grandi, cattedra di Comunicazioni di massa dal ‘73, oggi presidente dell’Istituzione Bologna Musei. «Invece due anni dopo erano già decuplicati, altri due e arrivarono a 2030: più di metà dell’intera facoltà di Lettere e filosofia. C’erano dieci cento mille Dams, ognuno si cuciva il suo su misura, mito plurimo e luogo di iniziazione di studentesse da paesi del sud a forte controllo sociale che ritrovavi coi capelli viola e le calze strappate, bisogno di rottura anche dell’apparenza».

 

Come disse, tra il cinico e il sornione in un’intervista del 1999, Paolo Fabbri, semiologo anche lui fuori dai canoni, allora presidente del corso di laurea: «I nostri studenti? Originali. Leggermente anomali. Hanno finito per venire al Dams quelli o troppo intelligenti o troppo stupidi per studiare altrove».

 

La morìa era alta, non più di un terzo arrivava alla laurea. Ma il successo ha poi baciato, citiamo un po’ alla rinfusa, i disegnatori Andrea Pazienza, Marcello Iori, Daniele Panebarco, gli scrittori Enrico Palandri e Pier Vittorio Tondelli, i critici d’arte e curatori Massimiliano Gioni, Giacinto Di Pietrantonio e Sandro Malossini, Roberto Freak Antoni il fondatore degli Skiantos, Maurizio Micheli l’attore, Gianni Cuperlo il politico (chi lo direbbe, compassato com’è). Primi passi da docenti hanno mosso, al Dams, Marco De Marinis di teatro, Patrizia Violi che erediterà Semiotica da Eco, i massmediologi Furio Colombo, Ugo Volli, Omar Calabrese, i filosofi Marco Mondadori e Salvatore Veca.

 

Il tumultuoso incremento dei primi anni aveva però cambiato le carte in tavola e i rapporti di forza. Marzullo, ricostruisce Barilli, «vuole essere il padrone assoluto della sua creatura, assegnare a suo piacimento incarichi e cattedre, impedire che altri atenei copino il corso (ci riesce per anni, salvo a Cosenza per un esperimento pilotato dalla Dc). Il suo obbiettivo è trasformare il Dams in un’autonoma facoltà, abbandonando alla polvere Lettere e filosofia. Nel ‘75 Anceschi, Arcangeli, Rognoni e anch’io riusciamo infine a fermarlo. Lui lascia».

 

Il Settantasette è alle porte e il DaDams, l’ala creativa e aspirante dadaista, gli fa da fucina. Occupazione contro la riforma Malfatti, assemblea studentesca il 1° marzo con Eco, Squarzina e Maldonado (in giacca e cravatta nelle immagini di Enrico Scuro, allora studente di fotografia): ma dieci giorni dopo in uno scontro di piazza viene ucciso Francesco Lorusso e la scintilla incendia la città. Qualche esagitato mette a soqquadro lo studio di Eco in via Guerrazzi rubacchiando quel che trova, rituale uccisione del padre, e quando la sera lui se ne va passando dai tetti finisce in caricatura su un muro. Ma il grande drago di cartapesta portato in piazza dai DaDams per spiegare ai passanti perché protestano, è quello che Giuliano Scabia, docente di Drammaturgia, ha costruito con i suoi studenti di storia e tecniche del teatro di strada di cantastorie e saltimbanchi.

 

Non fosse bastato il Settantasette, i “te l’avevo detto” dei benpensanti si sprecano quando nell’83 viene uccisa con 47 coltellate, una sola letale, Francesca Alinovi, 35 anni, ricercatrice con Barilli, inventrice della corrente degli Enfatisti, tutti giovani damsiani, scopritrice in Europa dei graffitisti americani e di Keith Haring, una storia d’amore balorda col suo giovane studente Francesco Ciancabilla, che per il delitto verrà condannato. Seguono altre tre morti di studenti, per stampa e tv “i delitti del Dams”. «Determinata e spregiudicata nella vita professionale, Francesca era assai fragile in quella sentimentale», ricorda Claudio Marra, teorico e storico della fotografia, curatore con Anna Rosellini della mostra “No Dams” sul cinquantennale, in preparazione in quel palazzo Sanguinetti al 34 di Strada Maggiore ora Museo della musica ma agli esordi prima sede del Dams. «Pubblicammo insieme “Fotografia, illusione o rivelazione?”: lei l’illusione, costruzione di un immaginario credibile, sogno che prende concretezza, io la rivelazione, confronto diretto, fisico, col corpo del mondo». Ma non fu proprio questo, in fondo, anche il Dams?

 

C’è ancora, il Dams, base in via Barberia nel palazzo Marescotti storica sede Pci, biblioteca nell’allora Sala Soviet. Ma ha cambiato pelle. Dal 3+2 riforma Berlinguer 1999, è un corso di laurea triennale a numero chiuso, 600 posti non del tutto coperti, donne sei su dieci. Annuncia Elisabetta Pasquini, la coordinatrice, un nuovo ordinamento da settembre, laboratori fin dal primo anno, maggior collegamento col mondo del lavoro. Gira però voce di un possibile ricongiungimento con Comunicazione. Nostalgia, forse, di antichi controversi fasti.