Le nuove linee guida del Ministero avevano semplificato l’accesso all’interruzione di gravidanza con la RU486. Ma le regole cambiano da ospedale a ospedale. E nel caos, l’offensiva politica contro la 194 non cenna a fermarsi

Mentre nei giorni del primo lockdown Francia e Regno Unito sperimentavano l’aborto in telemedicina per evitare contatti tra medici e pazienti che avrebbero potuto favorire i contagi, in Italia il servizio di interruzione di gravidanza si paralizzava nel caos degli ospedali. A risentirne di più era, paradossalmente, l’accesso all’aborto farmacologico che in teoria dovrebbe essere l’“aborto facile e veloce” ma che, nella pratica, finiva con l’occupare posti letti più a lungo di quanto non facesse quello chirurgico. Per l’aborto farmacologico, che consiste nell’assunzione di due farmaci (la famosa pillola abortiva RU486 e, a distanza di due giorni, le prostaglandine che causano le contrazioni), era infatti previsto un ricovero di tre giorni che lo rendeva più difficile da gestire per le strutture ospedaliere. Così lo scorso agosto, dopo il parere favorevole del Consiglio Superiore di Sanità e Aifa, il ministero della Salute ha pubblicato le nuove linee di indirizzo che hanno abolito l’ospedalizzazione e allungato il termine per l’assunzione del farmaco, adeguando finalmente l’Italia alle indicazioni dell’Oms adottate nel resto dell’Europa, dove la RU486 si somministra da anni senza obbligo di ricovero, anche nei consultori e fino alla nona settimana di gestazione.


A distanza di nove mesi dall’annuncio del ministro Roberto Speranza, però, la situazione non è cambiata. «Quello che stiamo verificando è una totale arbitrarietà rispetto alle nuove linee guida da ospedale a ospedale», dice Federica Di Martino, che con la ginecologa dell’associazione Vita di Donna Elisabetta Canitano monitora l’accesso al servizio di interruzione di gravidanza negli ospedali italiani con il progetto “Ivg ho abortito e sto benissimo”. Anche sul termine entro cui è possibile utilizzare la RU486 c’è confusione: «Ci sono ospedali che si sono adeguati alle linee guida e garantiscono l’aborto farmacologico a nove settimane dal concepimento e altri che sono fermi a sette. Questo complica ulteriormente la situazione: si creano liste di attesa perché la fornitura è scarsa e dopo la settima settimana molte donne vengono indirizzate all’aborto chirurgico anche se inizialmente avevano chiesto il farmacologico. Molte rinunciano e si spostano in altre strutture, facendosi anche quattro ore di macchina per usufruire della RU486, ma ovviamente non tutte possono permetterselo», spiega.


Dal momento che la sanità è di competenza regionale, le indicazioni del ministero non bastano, ma sono le singole Regioni a doverne formalizzare il recepimento per rendere effettivo il servizio. E sono poche ad averlo fatto sinora, Lazio, Emilia-Romagna e Toscana, dove il servizio di Ivg ha sempre funzionato bene. Il Lazio sembra essere la Regione che più di tutte si è messa in moto per l’attivazione delle linee di indirizzo, con un protocollo molto dettagliato varato il 31 dicembre 2020. Oltre alle determine, poi, le Regioni dovranno aggiornare il nomenclatore tariffario regionale, cioè l’elenco delle prestazioni che possono essere rimborsate dal Servizio sanitario nazionale per rendere l’aborto gratuito così come prevede la Legge 194. Tuttavia, secondo Di Martino, dai singoli ospedali continuano ad arrivare notizie contraddittorie.


Ma non sono solo i tipici ritardi “all’italiana” a essere parte del problema, ma anche delle forti prese di posizione da parte delle Regioni amministrate dal centrodestra, che non solo temporeggiano nel recepimento, ma che contrastano attivamente le nuove linee guida attraverso delibere che vanno nella direzione opposta. A spingere il ministro della Salute, Roberto Speranza, a richiedere un nuovo parere al Css, insieme alla situazione che si era creata durante la pandemia, era stata anche la decisione della giunta umbra guidata da Donatella Tesei di abrogare una precedente delibera regionale che permetteva la somministrazione della RU486 in day hospital. Un gesto che si spiegava con la vicinanza di Tesei ai movimenti pro-life, di cui aveva firmato il “Manifesto valoriale” durante la campagna elettorale nel 2019.

 

Dopo le polemiche sulla questione aborto, l’Umbria ha recepito le nuove linee guida pur mantenendo la possibilità di abortire con il ricovero in ospedale, ma l’offensiva nei confronti della RU486 ora potrebbe arrivare dai consultori. La consigliera della Lega Paola Fioroni, infatti, ha proposto una legge che modifica il Testo unico in materia di sanità e servizi sociali, che non solo prevede che la Regione «tuteli la vita umana dal concepimento alla morte naturale», ma che potrebbe aprire le porte dei consultori alle associazioni che «sostengono la vita nascente» e «l’unità del nucleo familiare».


Anche il Piemonte si è subito attivato per respingere le nuove linee guida, su iniziativa dell’assessore agli Affari legali Maurizio Marrone di Fratelli d’Italia. Marrone già ad agosto aveva attivato l’avvocatura regionale contro il governo sollevando “criticità giuridiche” sulle Linee ministeriali e diramando una circolare nelle Asl che non solo vieta l’aborto farmacologico fuori dagli ospedali, ma chiede l’attivazione di sportelli informativi per la maternità difficile, come ad esempio quelli gestiti dal Movimento per la vita. Il marzo scorso, la Regione ha inoltre pubblicato un nuovo bando per le associazioni che possono operare nelle Asl e ha previsto tra i requisiti richiesti la «presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento».

 

Una strada già tentata dieci anni prima dalla giunta guidata dal leghista Roberto Cota e fermata da un ricorso al Tar che annullò la parte del bando relativa ai requisiti pro-life. Le associazioni femministe Non Una Di Meno e Più di 194 Voci sono scese in piazza il 17 aprile scorso per protestare contro le iniziative di Marrone, sostenute anche da altri gruppi in Regioni diverse che stanno vivendo una situazione simile.


Come in Abruzzo, dove l’assessora alla sanità Nicoletta Verì, in quota Lega, e il direttore generale della Sanità Claudio D’Amario hanno diffuso una circolare nelle Asl in cui si «raccomanda fortemente» di effettuare l’Ivg chirurgica «preferibilmente in ambito ospedaliero e non presso i consultori familiari». O come nelle Marche, dove a un’interpellanza della consigliera del Pd Manuela Bora sull’applicazione della 194 nella Regione la maggioranza leghista ha risposto con una circolare su modello di quella del Piemonte, richiedendo una «verifica di compatibilità delle linee guide del ministero della Salute con la Legge 194». Commentando la notizia, il consigliere capogruppo di Fratelli d’Italia Carlo Ciccioli ha definito la battaglia per l’aborto “fuori posto”, citando il pericolo di sostituzione etnica. Come se non bastasse, anche in questa Regione si spinge per l’ingresso dei pro vita nei consultori tramite una proposta di legge regionale simile a quella umbra, «a sostegno della famiglia, della genitorialità e della natalità» che «riconosce, tutela e promuove i diritti della famiglia, società naturale fondata sul matrimonio». Ciccioli ha dichiarato in proposito «non possono esistere alternative» a questo modello, in cui «al padre sono demandate le regole, alla madre l’accudimento».


Un’offensiva alla 194 di chiara connotazione politica e che per di più arriva in un momento di particolare fragilità per il Sistema sanitario nazionale, in cui sarebbe auspicabile ridurre il più possibile gli accessi in ospedale. Nonostante i tanti proclami sull’importanza della medicina territoriale, alcune Regioni si stanno adoperando per ostacolare uno strumento che può alleggerire la pressione sugli ospedali, sfruttando uno dei più importanti presidi di salute pubblica: i consultori pubblici. Pressione che potrebbe essere ulteriormente ridotta attraverso il rilascio del certificato medico necessario per l’interruzione di gravidanza attraverso una visita telematica, così come si fa già in molti Paesi. Gli oppositori alle nuove linee guida affermano di voler tutelare la salute delle donne, eppure l’aborto farmacologico è una procedura sicura, utilizzata da decenni in tutto il mondo e raccomandata dall’Oms. O forse dovremmo dare più peso al parere di qualche assessore regionale che nemmeno si occupa di sanità?