La giungla dei bonus fiscali: sono 532 e costano oltre 60 miliardi l’anno

Contributi, agevolazioni e sgravi sono ormai una massa inestricabile. E il sistema è diventato così complesso che anche chi dovrebbe usufruirne non riesce più a farlo

Mamma, papà, due figli. Se si aggiunge un indicatore di benessere economico famigliare sufficientemente basso e molta destrezza nel farsi strada fra la giungla di bonus fiscali, una famiglia potrebbe racimolare dallo Stato fino a 14 mila euro l’anno. Undicimila piovono dal reddito di cittadinanza e 480 euro dall’immarcescibile social card di tremontiana memoria, istituita nel 2008 dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, dimenticata da tutti, ma viva e vegeta. Le bollette di luce, acqua e gas sono abbattute da uno specifico bonus. Poi c’è il contributo affitto, quello per l’acquisto degli occhiali, il bonus vacanze e per il trasporto pubblico. Se si dovesse decidere di avere un terzo figlio, ecco pronto un altro assegno da 1.800 euro. In più, ci sono le detrazioni per le spese mediche e sanitarie, ma anche lo sconto per gli animali domestici e quello per gli interventi edilizi, il bonus nido, quello per le spese universitarie e così via.

 

Certo, per averne diritto conviene che lavori solo uno dei due coniugi e bisogna evitare di risparmiare quattrini - meglio spendere tutto e subito - così si mantiene basso l’Isee, cioè l’indicatore di situazione economica. In un paese in cui le agevolazioni fiscali sono 532 - che producono un’erosione complessiva alle casse pubbliche da 62,3 miliardi di euro, su un gettito Irpef da 170 miliardi (cioè il 10 per cento del Pil nazionale) -, vivere di bonus non è impossibile. Tanto più che ogni anno sbocciano nuove agevolazioni perenni: infatti i bonus non appassiscono mai, si sommano a quelli già esistenti e creano un ginepraio di trattamenti privilegiati. Paradossalmente, il sistema è così complesso che chi ne avrebbe davvero bisogno spesso non riesce a capire come usufruire di tanta generosità.

 

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«Negli anni recenti il numero dei bonus è esploso. Le nuove agevolazioni si sono sommate a quelle precedenti, anziché sostituirle. Contribuendo a creare confusione», spiega Massimo Baldini, docente di Sistemi di Welfare all’Università di Modena e Reggio Emilia, che continua: «Malgrado l’elevato costo del reddito di cittadinanza (circa 8 miliardi l’anno) e l’estesa platea di beneficiari (più di un milione di famiglie), la sua introduzione non ha eliminato altri trasferimenti destinati a nuclei in povertà, come la carta acquisti e l’assegno ai nuclei famigliari numerosi. C’è un’iniquità fortissima tra chi sfora di poco la soglia Isee - e quindi non ha diritto ad alcuno sgravio -, e chi vi rientra per un soffio e può cumulare moltissimi incentivi».

 

La sovrapposizione di sgravi è un fenomeno che nessuno monitora perché ogni agevolazione ha scadenze e regole differenti, oltre ad essere stanziato da enti diversi (dal Comune, dall’Inps o dall’Agenzia delle Entrate), creando una fortissima disuguaglianza all’interno della fascia più debole della popolazione.


Fra le riforme che il governo Draghi si è impegnato a mettere in atto in vista dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il Pnrr, c’è proprio una revisione della materia fiscale, in particolare dell’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, un riordino atteso da decenni. L’ultima sforbiciata risale al 1993, quando l’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che definì «lunare» il modello 740 per la dichiarazione dei redditi, diede mandato al governo Ciampi e al ministro delle Finanze Franco Gallo di semplificare i moduli della dichiarazione dei redditi. Fu necessario ridurre il mare magnum delle agevolazioni. «Dubito sarà il governo Draghi a varare una riforma incisiva alle spese fiscali», dice Vieri Ceriani, economista, già sottosegretario al ministero dell’Economia del governo Monti e vertice del Servizio Rapporti Fiscali di Banca d’Italia.

 

Nel discorso di insediamento al Senato, il premier aveva indicato una strada lunga, citando l’esempio danese: nel 2008 a Copenaghen fu nominata una commissione di esperti che, dopo due anni di lavoro e confronto con partiti e parti sociali, presentò in Parlamento un progetto di riduzione del carico fiscale ampiamente condiviso. Se nel testo del Recovery Plan il governo Draghi si è effettivamente impegnato a presentare al Parlamento una legge delega entro il 31 luglio, è anche vero che solo successivamente verrà istituita una commissione di esperti. Inoltre quella del fisco non è una riforma prioritaria, come lo sono quelle della Pubblica Amministrazione e della Giustizia, ma ha solo un ruolo ancillare.

 

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«I risultati non arriveranno prima del 2023, forse dopo le prossime elezioni, eppure sarebbe utile fare presto, almeno sul fronte delle spese fiscali», commenta Ceriani. Il Covid ha portato con sé un esponenziale aumento della spesa pubblica, facendo schizzare il rapporto tra debito pubblico e Pil al 159,8 per cento, un record assoluto nella storia d’Italia. Ma presto o tardi il vincolo di bilancio andrà reintrodotto e l’onere di quel debito, come pure le maggiori spese a sostegno di imprese e famiglie, dovranno essere finanziati: «Non solo l’erosione del gettito fiscale sta aumentando di anno in anno, ma a causa della pandemia sta passando il messaggio (schizofrenico) che è legittimo esigere e ottenere sostegni dallo Stato e, allo stesso tempo, che i tributi sono un male in sé, da abbattere, anziché un metodo di riparto delle spese pubbliche. È evidente che al termine dell’emergenza sanitaria il bilancio pubblico dovrà rientrare nel solco della finanza ordinaria e garantire un percorso sostenibile», spiega Ceriani.

 

Un ampio lavoro di ricognizione a proposito del riordino del fisco è già stato fatto dalle Commissioni parlamentari in oltre 60 audizioni, tuttavia lo spazio finanziario disponibile è molto ristretto: dei 15 miliardi previsti per la riforma del fisco, metà servirà a finanziare l’assegno unico per i figli - slittato a inizio 2022 - e poco sarà destinato alla revisione dell’Irpef, in particolare della progressività delle aliquote, che infieriscono soprattutto sulla classe media.


La riduzione delle agevolazioni fiscali diminuirebbe la disuguaglianza orizzontale e verticale: «Orizzontale perché, a parità di reddito, il gettito proviene all’85 per cento da pensionati e lavoratori dipendenti, mentre ci sono categorie privilegiate, come gli imprenditori agricoli, che non versano nulla, così come i lavoratori autonomi godono del regime forfettario, i proprietari di immobili della cedolare sugli affitti e ovviamente c’è sempre da combattere l’impunità degli evasori fiscali», spiega Ceriani, che aggiunge: «Sono aiuti da abbattere per riportare gettito nelle casse pubbliche». La disuguaglianza verticale viene invece scontata per lo più da chi guadagna fra i 28 e i 35 mila euro: una fascia che garantisce un terzo del gettito complessivo, su cui si riducono fortemente le detrazioni fiscali e dove l’aliquota marginale, che indica quanto aumenterebbe la tassazione se si guadagnasse un euro in più, sfiora il 40 per cento. Si tratta quindi di un forte incentivo al lavoro nero e al fuori busta e un disincentivo alla produttività e all’avanzamento di carriera, perché può convenire mantenere un salario contenuto, garantendosi un maggior sostegno pubblico, anziché guadagnare di più.

 

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Parallelamente l’eccesso di sgravi nella fascia al di sotto dei 15mila euro di reddito è un freno alla ricerca attiva di lavoro. La nota per l’indagine conoscitiva sulla Riforma dell’Irpef realizzata a marzo dal Cnel spiega che il reddito di cittadinanza, nato per favorire il reinserimento nel mercato del lavoro, «può produrre un rischio di trappola della povertà, perché il suo importo si riduce fortemente non appena cresce il reddito e questo scoraggia l’offerta di lavoro». Spiega il professor Baldini che anche l’esasperazione degli sgravi «disincentiva soprattutto l’occupazione femminile. Se un familiare decide di cominciare a lavorare, di accettare un avanzamento di carriera o di aumentare il numero delle ore in ufficio, l’Isee cresce e si rischia di perdere i benefici statali. Può inoltre scoraggiare la propensione al risparmio, perché l’Isee dipende non solo dal reddito, ma anche dal patrimonio della famiglia. Perché penalizzare una famiglia parsimoniosa rispetto a una con la tendenza a spendere?».


Se fino a oggi nessuno ha fatto ordine nel guazzabuglio di detrazioni e bonus è soprattutto per non inimicarsi le lobby corporative. È sempre la nota del Cnel a far notare che «gli aiuti fiscali hanno un andamento crescente nel tempo perché si trovano sempre e facilmente buone motivazioni per introdurre nuove agevolazioni, generando consenso politico. Una volta introdotte, tuttavia, sono politicamente difficili da eliminare, soprattutto per gli interessi specifici che andrebbero a colpire. Il processo di dilatazione dell’erosione fiscale sembra dunque irrefrenabile e in accelerazione».


Una soluzione già proposta in numerose audizioni potrebbero essere l’introduzione di periodiche verifiche di efficacia di ogni agevolazione introdotta o l’automatica soppressione allo scadere di un certo periodo. Il Decreto legislativo 160 del 2015 prevedeva un’analisi annuale sugli effetti micro economici e le ricadute sociali di ogni agevolazione fiscale. Ma queste indagini non sono mai state effettuate. «Quell’analisi avrebbe costretto le lobby, che premono sulla politica per ottenere vantaggi fiscali, a impegnarsi più nel mantenimento dei privilegi esistenti, anziché nella richiesta di nuove esenzioni», commenta Ceriani. Tutte le spese fiscali di cui cittadini possono fruire, ad esempio le ristrutturazioni edilizie, le spese sanitarie, la previdenza complementare e così via, vengono soprattutto dalle leggi di Bilancio. Da qui l’ipotesi avanzata nelle audizioni della Commissione Fisco di creare una specifica sessione del bilancio per valutare le spese fiscali e i loro effetti finanziari. Di sicuro il sistema necessita di una netta sforbiciata: attualmente ci sono 141 detrazioni Irpef, che tolgono al fisco 43 miliardi, a cui si aggiungono altre 391 spese fiscali che comportano un’erosione complessiva del gettito totale da 62,3 miliardi, cioè quasi il quattro per cento del Pil nazionale. Forse troppo per uno stato sovraindebitato.

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