Affrontare le iniquità e i buchi dei bonus e delle agevolazioni fiscali richiede un deciso cambio di rotta a favore del rafforzamento del welfare dei servizi, dai servizi sanitari ai servizi sociali ed educativi, fin dalla prima infanzia. Ma cosa intendere per rafforzamento? Rafforzare significa, certamente, investire più risorse: in tutti i servizi appena richiamati, è netta l’inferiorità della spesa pubblica italiana rispetto alla spesa media del resto dei paesi europei. Le risorse, tuttavia, non sono tutto. Nonostante gli esempi di successo, l’offerta pubblica si dimostra in troppi casi carente e sono altresì evidenti i limiti dei tentativi di contrastare le carenze pubbliche con l’introduzione di elementi di quasi mercati, quali le remunerazioni incentivanti e le esternalizzazioni. In molti casi, l’esito è stato null’altro che l’aggiunta di un male ad un altro. Basti pensare ai direttori generali del Ssn remunerati per tagliare la capacità in eccesso che sarebbe stata così utile per affrontare la pandemia. Rafforzare il welfare dei servizi richiede dunque di occuparsi anche di come migliorare le modalità di erogazione.
Vorrei proporre alcune indicazioni, per quanto succinte.
Primo, va rafforzata la natura di rete dei servizi. Prevenire e soddisfare bisogni richiede un insieme composito di interventi. Non basta la somma di prestazioni. Le reti soddisfano esattamente questo obiettivo. Permettono di offrire percorsi integrati, radicati nei diversi territori.
Secondo, va rafforzato il carattere universale dell’accesso. I servizi al cuore del welfare rappresentano le condizioni fondamentali per una vita civile o, addirittura, per la vita stessa. Ciò vale non solo per i servizi sanitari e educativi. Vale anche per i servizi sociali/assistenziali, alla luce della crescita dei rischi di vulnerabilità, impoverimento e solitudine. E, senza tali servizi, rimane illusorio contrastare le disuguaglianze di genere nella ripartizione della cura. L’universalismo a sua volta concerne sia le persone sia i luoghi. L’accesso ai servizi va assicurato a tutti e tutte, a prescindere dalle risorse detenute e da dove si viva.
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Terzo, se i servizi al cuore del welfare rappresentano condizioni fondamentali per ciascuno di noi, allora le modalità stesse di gestione dovrebbero riflettere questo valore, come ci stimola a riconoscere la prospettiva dei beni comuni. Il che implica l’adozione di modalità di gestione partecipate in grado di assicurare voce e spazio agli utenti, ai lavoratori coinvolti e alla pluralità di soggetti attivi sul territorio, incluse le imprese sociali e le associazioni di volontariato. Co-programmazione, focus sul valore intrinseco di ciò che si produce, ascolto e coinvolgimento dei beneficiari in opposizione a qualsiasi visione paternalistica/passivizzante della presa in carico, valorizzazione del lavoro di cura sono alcune implicazioni.
Certo, non si tratta di indicazioni del tutto nuove. Erano presenti e hanno costituito una spinta potente alla fondazione del Servizio sanitario nazionale nel 1978 e al varo della legge-quadro del 2000 per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali. Sono state, però, largamente disattese e addirittura traviate. E anche oggi appaiono minoritarie, nonostante qualche momentaneo plauso allo scoppio della pandemia. Basti pensare al peso che continua ad avere la visione del welfare come mero sostegno all’inclusione nel mercato e, in via residuale, come aiuto per gli esclusi, coloro che restano indietro.
Appare, però, difficile immaginare uno sviluppo che sia fonte di stare bene per tutti e tutte che non le realizzi. Peraltro, una rete universale e partecipata dei servizi consentirebbe anche un’espansione delle libertà. Il riferimento è non solo all’opportunità di trovare un’occupazione, in primis, per le tante donne oggi ostacolate dalle responsabilità di cura. È anche all’opportunità per forme specifiche di impiego, di messa in gioco delle capacità di innovazione, di più complessiva attivazione diverse da quelle offerte dall’economia a scopo di profitto.