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Attualità
maggio, 2021

La lotta dei lavoratori dello spettacolo per non tornare al mondo di prima

Fanno assemblee, occupazioni, presidi e hanno voglia di sindacato. Sono una delle poche categorie che non si limita a chiedere di riaprire, perché i problemi da risolvere (come l’estrema precarietà) c’erano anche prima (foto di Francesco Fotia)

«Non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema». Questa è una delle tante frasi fatte con cui abbiamo arricchito il nostro arsenale retorico nel corso di un anno di pandemia. Undici parole che stanno a segnalare la speranza che il mondo post pandemico sia più giusto ed equo di quello che abbiamo conosciuto, e allo stesso tempo la paura che la nuova realtà sarà invece più dura per chi già aveva meno e ancora più diseguale.

 

Se c’è qualcuno che ha preso alla lettera lo slogan, questi sono i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, che da mesi hanno cominciato ad organizzarsi per vedersi garantire una continuità di reddito, ma che ora con teatri e sale che iniziano una graduale riapertura, chiedono una radicale revisione di tutto il settore. Li incontriamo ad Acrobax, centro sociale romano in via della Vasca Navale, dove hanno aperto uno sportello di consulenza legale e svolgono le loro assemblee.


Il Laboratorio Acrobax – come altre occupazioni e centri sociali in giro per l’Italia – ha rappresentato il naturale hub di incubazione dell’organizzazione dei precari dello spettacolo, che spesso animano luoghi come questi nella veste di attivisti o volontari. Si è parlato molto in questi mesi della capacità di risposta data dagli spazi sociali all’emergenza durante il lockdown, ad esempio con la distribuzione di aiuti alimentari, un lavoro che va avanti anche qua alla periferia sud-ovest della capitale. Ma si è parlato meno del ruolo essenziale che hanno avuto per organizzare in questo frangente chi ha continuato a lavorare (come i rider) e chi si è trovato senza lavoro da un giorno all’altro. Mentre tutto attorno si organizzano spazi e attività, tra il via vai del rugby dei bambini e dei grandi, l’aula studio e il bar che riapre dopo mesi di forzata chiusura, i protagonisti della nostra storia discutono il da farsi. Dopo l’occupazione del Global Theatre di Roma a metà dello scorso aprile, le manifestazioni e i presìdi, bisogna capire come andare avanti: gli incontri con il governo e l’allargamento del processo di sindacalizzazione sono all’ordine del giorno. La carne al fuoco è tanta e c’è bisogno di discutere.

 

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Marta Di Maio ha 33 anni, una laurea in lettere e un figlio piccolo, un lavoro da sempre precario. «Sono una cassiera di botteghino con un contratto di tipo stagionale e lavoro per Teatro di Roma, quindi per un’istituzione culturale pubblica. Come ci sono finita? Per caso. Mi ha chiamata un service esterno per lavorare al Teatro del Lido di Ostia, poi sempre tramite agenzia ho fatto una sostituzione per una dipendente del Teatro di Roma all’Argentina, e successivamente mi hanno proposto l’assunzione lavorando prima all’India e poi di nuovo all’Argentina. In tutti questi anni ho sempre avuto la stessa tipologia di contratto: sono una lavoratrice stagionale che va in disoccupazione ogni anno e poi spera di essere nuovamente riassunta». Quello stagionale è uno dei tanti contratti che rappresentano la selva delle tipologie che normano il settore dello spettacolo, rinnovabile all’infinito senza nessun obbligo per il datore di lavoro di trasformarlo in un rapporto a tempo indeterminato.


Di Maio è una delle veterane dell’assemblea degli Autorganizzati dello Spettacolo Roma, e ci racconta come tutto è iniziato, ovvero da una chat tra colleghi . «Il 5 marzo del 2020 sono stati chiusi tutti gli spettacoli dal vivo e siamo piombati nell’incertezza. Su una chat tra persone che già si conoscevano, quasi tutte maestranze, abbiamo cominciato a porci domande e darci consigli: “A te il resto del contratto lo stanno pagando?”, “Ti hanno messo in cassa integrazione?”, “Possiamo chiedere la disoccupazione?” e così via. Una chat tra amici che si danno consigli». Allo smarrimento è seguita come una catarsi collettiva, la presa di coscienza, questo gruppo di lavoratori e lavoratrici si rende conto di non sapere quasi nulla di contratti e diritti: «Abbiamo capito che serviva studiare, anche solo per comprendere come avrebbero funzionato i sostegni, a cosa avevamo diritto ma soprattutto se ne avevamo diritto». Man mano alla chat si sono aggiunti altri colleghi con gli stessi problemi e così si passa a degli incontri online che riscontrano un un successo inaspettato. Le prime assemblee online sono molto caotiche, alla paura per l’inedita realtà della pandemia e per la salute propria e dei propri cari, si aggiunge l’angoscia per la sopravvivenza «visto che da un momento all’altro ci eravamo trovati senza lavoro e nessuno ci stava dicendo come avremmo fatto a pagare l’affitto».

 

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Rispetto ad altri cicli di mobilitazione, in cui i precari dello spettacolo erano identificati per lo più con attori e lavoratori della cultura, il protagonismo delle maestranze in questi mesi ha segnato decisamente la mobilitazione: elettricisti, tecnici del suono e delle luci, e chi più ne ha più ne metta.


A questo punto avviene quello che nessuno aveva previsto all’inizio: l’incontro con il sindacato. Di più, l’urgenza di sindacalizzazione in un settore dove questa è scarsissima, se si esclude un insediamento nei teatri stabili. Un sindacato di servizio, che sia in grado di mettere a disposizione strumenti e si faccia trasformare dalle necessità di chi chiede di organizzarsi. A Roma avviene l’incontro con le Clap, ovvero le Camere del Lavoro Autonomo e Precario, in altre città il punto di riferimento sono altre sigle del sindacalismo conflittuale e, superando le naturali differenze e diffidenze, nasce Risp - Rete intersindacale professionisti spettacolo e cultura.


Tiziano Trobia è coetaneo di Marta, attivista sindacale delle Clap e precario a sua volta. In questi anni ha imparato a leggere una busta paga e un contratto, a consigliare altri lavoratori e a organizzare vertenze laddove il sindacato o non è mai esistito, o peggio è un’emanazione della parte datoriale o un’agenzia di collocamento interno. Lui tra gli altri ha avuto il compito di incalzare il ministro della Cultura, Dario Franceschini, quando ha accettato di andare a confrontarsi in un’assemblea con gli occupanti del Globe Theatre, ascoltando l’articolato documento di rivendicazione portato avanti dagli occupanti.

 

«La piattaforma presentata al Globe è nata in tante assemblee», spiega Trobia: «È importante che la piattaforma sindacale sia costruita in questo modo, che rispecchi il dibattito e le necessità di tutti i lavoratori che partecipano anche se può sembrare un po’ lungo. Al tavolo con il governo abbiamo portato i problemi legati all’emergenza, ma anche delle proposte su come garantire più diritti a chi lavora nello spettacolo, a cominciare dalla questione del reddito e di un contratto unico per il settore laddove ce ne sono oggi almeno nove».

 

Il confronto pubblico con il ministro Franceschini non è stata una delega in bianco al governo e negli incontri successivi i rappresentanti dei precari della cultura e dello spettacolo si sono trovati di fronte a uno scenario che non si aspettavano: «Abbiamo scoperto che c’è una legge delega che mette insieme testi esistenti e già depositati a Camera e Senato, per fare una riforma in tempi brevissimi. Da una parte siamo consapevoli che senza la mobilitazione di quest’anno questo non sarebbe accaduto, e vengono affrontati molti dei nodi che abbiamo sollevato - la malattia, la maternità, la continuità di reddito per gli intermittenti - ma lo si sta facendo con una fretta eccessiva così che non c’è una vera possibilità di confronto».


Lavoratrici e lavoratori dello spettacolo non sono stati l’unica categoria a protestare in questi mesi, ma sono stati tra i pochi a non chiedere la riapertura del proprio settore, tra i pochissimi a chiedere garanzie per sé e per tutti gli altri insistendo molto sull’allargamento dello strumento del reddito. Una lotta non particolaristica che per paradosso arriva non dai settori a più alto grado di sindacalizzazione e garanzie, quelli che dovrebbero naturalmente farsi carico delle questioni “a carattere generale”, come si diceva una volta in sindacalese. «Parliamo di un settore dove regole e diritti sono pochi, ma spesso non vengono rispettati neanche quelli, con ampie zone di lavoro nero e lavoro grigio. Non è strano che da settori le cui condizioni di lavoro sono considerate atipiche venga ora questa spinta, perché sono lo specchio di quelle che sono le condizioni del lavoro tout court», insiste Trobia.


Al protagonismo delle maestranze e dei tecnici si è aggiunta quella di artisti e lavoratori culturali che non sono stati assenti dalla mobilitazione, e i giorni di occupazione del Global Theatre hanno rappresentato l’unione plastica di questo incontro felice. Ilenia Caleo è una ricercatrice e una performer, da anni si interroga su questi temi. Tra i protagonisti dell’avventura del Teatro Valle a Roma, la ritroviamo con la stessa voglia di immaginare un cambio di paradigma radicale per il settore dello spettacolo. Impegnata con Campo Innocente, che dall’incontro con il movimento transfemminista Non Una Di Meno ha aperto una riflessione sul lavoro e la produzione culturale e artistica, mettendo a nudo come il mondo dello spettacolo e della cultura sia tutt’altro che immune dalla violenza di genere, dalla discriminazione e dall’esclusione. Oggi, dieci anni dopo, ci spiega come è cambiata la prospettiva della battaglia degli intermittenti nel mondo travolto dalla pandemia: «Rispetto al ciclo della crisi 2008-2011 viviamo una condizione radicalmente diversa, usciamo dalla fase dell’austerità. All’epoca lottavamo contro il violento definanziamento della cultura, tagli da cui non si è più tornati indietro. Oggi arriveranno molti soldi con il Recovery Plan, e quella che ci aspetta è una battaglia sulla risorse e su come verranno allocate, sia sul terreno del welfare che su quello dei finanziamenti all’arte e lo spettacolo».


«Anche una parte del mondo dell’arte e dello spettacolo ha presentato purtroppo posizioni corporative, compresa la retorica di tornare a lavorare e di riaprire a tutti i costi», sottolinea Caleo. Al contrario la coalizione che ha portato all’occupazione del Globe ha presentato un’idea molto diversa chiedendo di non riaprire se non in sicurezza. E se i più garantiti del mondo dello spettacolo insistevano sull’eccezionalità del lavoro artistico, al teatro Globe si manifestava un’alleanza “anti” che trovava il minimo comune denominatore nella ricerca dei problemi comuni e di un approccio anticorporativo in grado di metter insieme i lavoratori della produzione culturale, con le maestranze, i tecnici con gli attori: «Abbiamo portato questo punto di vista ai tavoli interministeriali, ma purtroppo non mancano prese di posizioni di chiusura e di tutela di una minoranza delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo, secondo logiche che si vorrebbero meritocratiche e di premiazione dell’eccellenza, come quella di un tesserino e di un’iscrizione a un albo».


Ognuno con la propria specificità, in un mondo poroso in cui il lavoro culturale e artistico si interseca con quello artigiano e tecnico, rendendo difficile trovare delle figure “pure” sopra e dietro i palcoscenici, il tema del reddito torna spesso. Perché a chiedere una continuità di reddito non è solo chi passa da una tournée all’altra, chi mette insieme tre o quattro lavori nei dintorni e all’interno di teatri e palcoscenici, ma settori sempre più ampi della società il cui lavoro è sempre spezzato e discontinuo. Reddito e salario, così come l’alternativa tra salute e lavoro, sono alcuni dei nodi posti in maniera nuova dai lavoratori e dalle lavoratrici dello spettacolo, così come i nuovi modelli di fare sindacato interrogano la possibilità di una nuova politicizzazione e di una rinnovata capacità contrattuale di settori fino a ieri a malapena presi in considerazione dalle istituzioni. E se non vogliamo tornare alla normalità di prima, converrà prestargli ascolto. 

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