Lavoro
Mai assente, mai malato: la nuova epica (tossica) dell’insegnante stacanovista
Come reazione al caso vergogna della docente assente per vent’anni, si esaltano gli esempi opposti di chi non ha mai preso un giorno. «Ora avere una salute di ferro è un merito e quindi avere una salute cagionevole rappresenta una colpa?»
«Sono un’insegnante anche io, sto attraversando un periodo difficile della mia vita e la mia salute fisica ne risente. Durante l'anno scolastico appena concluso, mi sono ammalata tre volte. È successo che le colleghe si lamentassero di me perché assente. Ho anche avuto un incidente stradale e una collega ha insinuato che mi fossi inventata tutto. Purtroppo la cultura tossica del lavoro non appartiene solo ai datori di lavoro, ma si insinua a più livelli», scrive un utente su Instagram.
«Basta con questi articoli che danno risalto agli workaholic! Le assenze non sono un demerito. Ci sono donne in gravidanza, autistici senza compromissioni come me, tante categorie di lavoratori che delle assenze hanno bisogno» aggiunge un altro.
«Resistere a qualsiasi tipo di malanno per lavorare non è umano e qualora si tratti di sindrome influenzale o qualsiasi malanno virale, è anche irresponsabile e irrispettoso. Se si sta male, non si lavora», commenta su Facebook una lettrice dell’articolo sulla docente stacanovista diventato popolare sul web.
Si tratta del caso della professoressa di un liceo dell’Isola d’Elba che in 36 anni di carriera non è mancata neanche un giorno, se non per la maternità obbligatoria e a causa del Covid-19. «Ma non ho mai chiesto nemmeno un permesso, una sostituzione, una entrata ritardata o posticipata, un giorno libero, in tutti questi anni: visite e appuntamenti li fisso il pomeriggio. Non prendo mai nemmeno il giorno libero che spetta di diritto all’insegnante una volta a settimana». Come se chiedere un permesso, che è un diritto del lavoratore, fosse sintomo di negligenza. O di scarsa voglia di fare. Perché «anche con il mal di testa si va scuola», dice l’insegnante intervistata dal Corriere della Sera. Definita nella maggior parte dei titoli di giornale come «la docente da record», «con una salute di ferro e tanto entusiasmo». E così descritta come simbolo del lavoratore efficiente che all’impegno unisce la passione, disposto anche a sacrificare il benessere personale per l’impiego.
Proprio come ha raccontato a Repubblica anche il professor Moroni: in vent’anni due sole assenze. Negli ultimi dieci nessuna. Perché «sono appassionato del mio lavoro, l’ho scelto. E per il senso del dovere: sono un funzionario pubblico, pagato dallo Stato e quindi a carico di tutti i contribuenti, ma più di tutto è l’amore per i ragazzi a cui sento di dover dare l’esempio».
Una narrazione dell’etica del lavoro che tanti lettori hanno definito tossica. Volta alla celebrazione e universalizzazione di modelli che non possono essere normalità ma solo l’eccezione. Che di fatto promuovono la competizione oltre il limite della correttezza. «La celebrazione della devozione al lavoro nasconde la demonizzazione di chi è costretto ad assentarsi di più. Se avere una salute di ferro è un merito per converso quindi avere una salute cagionevole rappresenta un demerito? Così persino il numero di giorni di assenza dall’occupazione si sono trasformati in una gara. Ma la qualità di un lavoratore non si giudica in numero di assenze/presenze», si legge nel post in cui l’editoriale indipendente Aestetica Sovietica denuncia la glorificazione del «lavoratore eroe» che sacrifica i diritti per la produttività. Visto anche che la storia dell’insegnante lavoratrice indefessa arriva proprio pochi giorni dopo quella della docente assenteista, destituita dall’incarico dopo essere mancata per 20 anni su 24 di carriera, grazie a un incastro di permessi, congedi, interdizioni e certificati.
Esempi estremi: o da condannare, oppure da record, da agognare. Per catturare l’attenzione. Anche se il prezzo potrebbe essere quello di contribuire alla diffusione di modelli sociali che generano malessere in chi ci si confronta.