La lezione di una vittoria della sinistra di popolo e d’élite. Che da allora sconfigge la destra e tiene a bada i Cinque Stelle

È caduto in un silenzio assordante il decimo anniversario di quello che allora parve a molti un momento storico: la Sinistra che riconquistava Milano. Un evento che i più consideravano piuttosto improbabile ancora a pochi giorni dal ballottaggio e che venne oltremodo favorito da un’altra, misconosciuta, pietra miliare: a spostare il comune sentire fu la satira. Giuliano Pisapia, candidato che oggi definiremmo di sinistra/sinistra e che sarebbe bersaglio del fuoco “amico” dei progressisti di stanza a Riyad, si presentava all’ultimo miglio contro i favori del pronostico. Letizia Moratti, ora riemersa agli orrori della cronaca, contava su una vittoria di conserva, sulla prosecuzione della sua Milano da pettinare, più che da bere, amata anche da certo ceto progressista col cuore sulla mancina e l’Iban a destra. Vogliamo ricordare le frotte di consulenti liberal al soldi di suor Letizia? Non vogliamo.

Poi, Moratti diede a Pisapia del ladro d’auto sul finire del confronto diretto su Sky. Ne nacque una formidabile contro/narrazione alla Chuck Norris che sui social, i primi social, bagnò il candidato comunista in acque purificatrici. Pisapia che sbriciolava le patatine nei supermercati e le rimetteva negli scaffali, Pisapia che rubava le dentiere alle vecchiette per suonarle come nacchere nei centri sociali… da lì all’epopea di Sucate, immaginario Paese dell’hinterland devoto del futuro sindaco, fu un attimo. Il vento era cambiato. La percezione pure. Il comunista cattivo diventava di colpo una piccola, buffa icona.

Una risata li avrebbe di lì a poco seppelliti.

Quel giorno Milano è rinata. Quel giorno Milano si è scossa dal torpore rassegnato di una promessa tradita, quella di Mani Pulite, che veniva dopo i magheggi socialisti degli anni Ottanta a dimostrare che, come cantava Ivan Graziani, è vero: non si può migliorare. Quel giorno una piccola utopia di popolo, politica nel senso migliore, di atto personale messo a servizio degli altri, mise le basi per la città che due lustri dopo è migliore in tutto e aderisce, finalmente, all’etichetta che ai tempi morattiani era solo chiacchiere e distintivo: l’unica entità europea al di qua delle Alpi.

Un percorso talmente solido che avrebbe retto, in parte addirittura crescendo di spessore, al cambio di nocchiero in corsa. Al traumatico, per certi versi, avvicendamento con Beppe Sala. Pisapia avrebbe preferito una soluzione interna, ai tempi. Che non avvenne per la solita balbuzie decisionale che sempre permea il fronte cosiddetto radicale. E col giro di valzer morì definitivamente il tono da epopea che aveva accompagnato la valanga arancione. Milano brillava, ma di un lucore più normale. Più rassicurante. Intorno, intanto, era cambiata l’Italia. L’obiettivo non era più quello di fare valanga, ma di sopravviverle.

Beppe Sala ha governato benissimo e la fatica che il centrodestra sconta nel trovargli un avversario o avversaria è indice che nella cerchia dei navigli, unico luogo in Italia nel quale il Pd spadroneggia, il fortino è saldamente presidiato. Ma c’è un ma. Forse un paio. Il primo è che, nonostante la plateale buona amministrazione di palazzo Marino, un eventuale “briscolone” spariglierebbe i sondaggi. Il secondo è che Milano ha smesso da parecchio di essere laboratorio. È un’eccezione. L’eccezione per eccellenza. Ma, da lontano, pare al resto del Paese una sorta di fortino radical chic assediato da Lega e Fratelli d’Italia, da una Lombardia che voterebbe centro-destra anche se domani Fontana, Gallera, la Moratti, che ora si bullano di correre più degli altri nelle vaccinazioni, si presentassero sul tetto del Pirellone e cantassero in coro: “Nella prima e seconda fase ne abbiamo ammazzati più noi della peste”.

Eppure, nella narrazione forzatamente approssimativa che ho appena fatto, albergano alcuni dati che dovrebbero interessare a quel che resta della sinistra.

Il primo è che le primarie servono, chiunque le vinca. Perché compattano eserciti in rotta. Non solo, la vittoria del candidato più (fittiziamente) pericoloso, come fu Pisapia, porta spesso a una sorta di epifania. In un contesto per cui i suoni gutturali di Meloni e Salvini raccolgono voti, e consenso, l’incidente “estremista” di qualche anno fa, un po’ come quello di Vendola in Puglia, hanno ribaltato il tavolo.

Il secondo è che l’impopolarità non sempre affossa i progetti. La salva di pernacchie che circonda Enrico Letta dacché ha deciso di guidare le folle, o almeno provarci, sempre che le folle esistano e gli sopravvivano, è rivelatrice. Letta veleggia sui numeri dei suoi predecessori eppure viene tacciato di perdentismo solo perché non ha ceduto all’evoluzione cogente del celebre teorema di De Gasperi. Laddove uno statista lavorava per le prossime generazioni e un politico per le prossime elezioni, il segretario gentile ha deciso di non lavorare, perlomeno, per il prossimo like. Picchia su argomenti identitari per riunire i propri, puntando poi a cavalcare e ad allargare la nicchia. Nell’attesa che un momento Sucate (oggi potremmo chiamarlo momento mojito, ed è avvenuto mica tanto tempo fa) sorrida anche a lui.

 

Il terzo è ultimo attiene alla sempre sottovalutata matematica. Dieci anni fa, per sconfiggere l’esponente locale di un Berlusconi all’epoca dominante, Pisapia radunò una coalizione che andava dalla Bonino a Rifondazione Comunista. Ora: anche al sottoscritto infastidì non poco l’investitura zingarettiana per Conte, roba da sindrome di Stoccolma, o di ‘stoc***o, per restare a Roma e dintorni. Ma i numeri sono chiarissimi: senza trattenere quel che resta dei Cinque Stelle nell’alveo progressista, senza dialogare con chi non è corso a limonare politicamente con le Destre, il Partito Democratico non vince neppure cinque euro al gratta e vinci. L’alternativa, semplicemente, non esiste: sono Italia Viva, o Azione, ad aver bisogno del Pd per sopravvivere. Altro che dettare condizioni.
Per questo, l’evento ormai remoto che fa da spunto a questo pezzo, potrebbe e dovrebbe essere rispolverato. Perché la memoria consente di non ripetere errori, talvolta, ma anche di cogliere nuovamente occasioni. Basterebbe, forse, sfuggire alla narrazione dominante, semplificante, da social network, che ha ridotto ogni dinamica del centro-sinistra a una scontro tra gang su basi di sconsolante pochezza.

Si può vivere, e bene, senza i tweet di Marcucci. Sempre, naturalmente, che non si abiti a Sucate.