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Politica
giugno, 2021

“Quanto è difficile oggi dirsi repubblicani (eppure resta indispensabile)”

La Res Publica può vivere solo su valori condivisi come uguaglianza, libertà e senso di comunità. Ideali oggi in crisi rispetto alle “privatae res”. Ma non possiamo smettere di combattere

Non si disperda il senso di repubblica nel vago cielo dei sentimenti e degli ideali. Radichiamolo a terra, e solo così ricorderemo adeguatamente il suo anniversario italiano. Il significato primo del termine res è quello concretissimo di bene, possesso, proprietà, da questo deriva quello di cosa: una cosa è davvero tale quando la tengo saldamente in mano, quando posso dirla mia. Ecco allora il paradosso: dire cosa mia una cosa publica, una cosa, cioè, che non posso dire mia proprietà!

 

Il repubblicano è colui che sente come ciò che massimamente gli interessa, che è cosa sua più profondamente, la res publica. Ed era costato assai giungere ad affermarlo! Il governo repubblicano sorge a Roma con la cacciata dei Re. Repubblica assume, già in Cicerone, che ne “inventa” la parola, un senso storico preciso, che manca al greco polis, politeia. La Repubblica è un regime politico che può nascere soltanto dalla lotta contro un regime monarchico, e contro la costante minaccia di quest’ultimo si rafforza e rinnova.


Sembra semplice, e invece è tutto estremamente complesso e difficile. Che cosa possiamo possedere tutti, ciascuno di noi, e a un tempo nessuno? Che cosa siano le privatae res, le proprietà private, credo di intenderlo subito. Ma quelle comuni in che cosa consistono? Dovremmo saperlo indicare, perché, altrimenti, il termine perde la sua pregnanza originaria, e res publica diviene un modo generico di dire una forma di governo in cui, in una maniera o nell’altra, la moltitudine ha la parola e partecipa al processo decisionale. Un equivalente, cioè, di democrazia. Quali sono le cose proprietà pubblica? Questa è la domanda che si pone il repubblicano. Il governo non è la res publica, ma deve garantirla! Garantire che esistano ricchezze che sono in funzione del benessere comune, ricchezze di cui non può appropriarsi il privato, e il cui uso non rappresenti una benevola concessione da parte del sovrano. Ricchezze materiali e immateriali: grandi infrastrutture di servizio, sanità, scuola, salvaguardia dell’ambiente. Ricchezze comuni, a cui tutti accedano e di cui nessuno sia il padrone.


La Repubblica sprona i cittadini a perseguire tale fine; la Repubblica vive se i cittadini lo richiedono come loro inalienabile diritto. Ma qui la faccenda si complica ulteriormente. I cittadini non sono astratti fantasmi ideali, ma uomini in carne e ossa, e la tendenza di ciascuno a ridurre la res publica a privatae res, a perseguire il proprio personale profitto anche in ciò che è “comune”, sarà sempre insopprimibile.

Poco conta, come fa il repubblicanesimo retorico, astrologare sulla intrinseca politicità del nostro essere. L’uomo sarà anche un “animale politico”, ma soltanto perché (forse, a volte) giunge a capire che il proprio privato interesse è più facilmente perseguibile in pace con gli altri che non in guerra. Da qui a volere la res publica nel senso che abbiamo detto, ci passano dieci oceani.


Ecco, allora, la necessità della legge. Essa crea la condizione sine qua non perché esista una res publica: l’uguaglianza dei cittadini di fronte a sé. Questa idea di uguaglianza è il presupposto perché sussista qualsiasi proprietà comune. Solo la legge è il sovrano. Ma, per il repubblicano, solo quella legge che mira a creare le condizioni perché tutti, in base alle loro capacità, e superando quelle disuguaglianze che natura e fortuna creano di continuo, godano delle comuni ricchezze. Se la legge non è la prima “proprietà comune”, nulla lo sarà.


Non illudiamoci di essere usciti con questo dalle difficoltà. Nessuna legge scende dal cielo, come nessun cittadino. L’autorità fa le leggi, non la verità. Diventa decisivo allora, per il repubblicano, comprendere come si forma e come si compone questa autorità, cioè il corpo legislatore. Se le finalità di quest’ultimo non saranno repubblicane, se non serberanno memoria della cacciata dei Re, potranno esservi mille repubbliche senza alcuna res publica. La repubblica per vivere deve educare al suo interno una cultura e un ceto politico che riconoscano come proprio fine creare condizioni sempre più alte di uguaglianza, e dunque, anzitutto, sappiano esprimersi attraverso leggi tali da eliminare per quanto umanamente possibile discriminazioni e arbitrii.

 

La legge repubblicana è tale se impedisce alla parte di volersi far tutto, al punto di vista “privato” di ergersi a Valore. Perciò essa tenderà a dividere il potere, a combattere ogni ottuso centralismo. La repubblica è federale nella sua stessa essenza.


Alla nascita della nostra Repubblica, qualcuna di queste idee circolava. La loro traccia si va smarrendo nella selva oscura delle seconde e terze repubbliche. Il mercato delle corporazioni inattaccabili, lo sfascio dei partiti, la dilagante disponibilità di fronte al perenne stato di emergenza di scambiare ordine e sicurezza con libertà, il rafforzamento pressoché incontrollato di pulsioni vetero-centralistiche di fronte alla crisi, e perfino alcuni revival della favoletta liberale dell’egoismo privato fonte di collettiva prosperità, insomma questo indigeribile pasticcio di miopi egoismi e cattive ideologie sta rendendo di giorno in giorno più ardua la via democratica alla res publica. Ma arduo è essere repubblicani: fa appello alle nostre passioni migliori, al con-patire con l’altro, al soffrire per la sua sofferenza, a lottare perché possa cessare, a combattere in noi invidia e avarizia. Quando giungeremo a dire: ma tutto questo è impossibile, la repubblica sarà finita.

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