Maschere italiane
O che bel mestiere fare il faccendiere
L’avvocato Amara erede di una eterna categoria italiana. Personaggi spesso pittoreschi, che si insinuano nel sottopotere seducendo, minacciando, adulando, e quasi sempre millantando
Amara o Amàra, questo è il problema. Non l’unico certo, né il peggiore, ma tale da anteporre l’enigma identificativo a qualsiasi trattazione di un soggetto, Piero Amara appunto, che da un paio di mesi va riempiendo le cronache giudiziarie: accuse, impicci, patacche, elenchi di logge segrete, Eni, Procura di Milano, Csm, traffici intorno alle nomine della magistratura, da un paio di settimane anche gli eco-disastri dell’Ilva di Taranto, un record di storiacce in sordida concentrazione che generano un secondo interrogativo: in quale mai classe professionale va compreso questo avvocato Àmara o Amàra, che dir non si voglia?
E qui la possibile risposta si biforca in due lingue di fuoco. La prima è che il tipo in questione è siciliano; e se i siciliani sono il sale del mondo, offrendo da secoli materia grigia in sovrabbondanza, è pur vero che la Sicilia è un’Italia al cubo nella quale la più intricata rete di scambi finisce per generare una sottilissima ambiguità che a sua volta si esprime in linguaggi mirabilmente elusivi e al tempo stesso, se necessario, fin troppo chiari. Che sarebbe un modo per dire che non ci si capisce mai niente.
L’altro corno fiammeggiante della premessa è che su potere e quattrini, assai più che le funzioni contano l’attitudine psicologica, lo stile di relazione e il tratto umano, per così dire.
Così, di Amara se ne sono lette tante, e tante ancora se ne seguiteranno a leggere, ma la più impressiva ed eloquente - sul long form di Repubblica a cura di Bonini, Lauria, Ossino, Palazzolo e Sannino - è che avendo a cuore una sentenza che avrebbe favorito un certo affare, come un angelo Amara entra nel cuore di un certo giudice che deve pronunciarla, e compreso che questi ha a cuore la salute di un amico malato, si offre di pagargli una costosa e disperata operazione; dopo di che quasi immediatamente passa all’incasso e ottiene la sentenza, ghermisce il denaro e s’ammanta di bontà e fama d’onnipotenza.
Sembra la trama di un film, una commedia all’italiana di quelle “cattive” che Rodolfo Sonego scriveva per Alberto Sordi negli anni 60. E invece è solo per collocare, finalmente, questo Amara in un inconfondibile comparto dell’antropologia del sotto-comando all’italiana. Ebbene, prima di piegare la bocca in una smorfia di disgusto è bene sapere che la figura archetipica del “Faccendiere” ha elevatissime ascendenze, se non altro lessicali. Secondo i dizionari etimologici è Niccolò Machiavelli ad aver messo in circolo la parola, nell’anno 1513, e con la definizione: «Chi si dà da fare specificamente in affari poco onesti«. In oltre 500 anni la classe di questi ultimi si è comprensibilmente dilatata, dal che l’immaginario, ma anche il mansionario del perenne faccendiere arriva a comprendere ogni sorta di nefandezze.
Per restare agli ultimi 70-80 anni: delazioni e salvataggi durante la guerra civile; finti nobili, cocaina, “donnine”, come si diceva, e affari all’ombra del Vaticano nella prima fase della Repubblica; poi trame golpiste, traffici di petrolio, massonerie predone e ricatti con contorno di banchieri strangolati; si aggiunga quindi un po’ di spionaggio e compravendita di armi, complotti & depistaggi, relazioni proibite con la criminalità, commercio di giornalisti, tangenti sugli appalti, grande evasione e grandi affari, dalla chimica alle discariche passando per i post-terremoti, beh, ce n’è quanto basta e avanza per stabilire che i faccendieri svolgono, ai loro fini, un mestieraccio che i veri potenti di solito fanno finta di ignorare, ma spesso gli fa comodo.
Di contemporaneo nell’avventura di Amara compare il minimo sindacale: impicci calcistici, società di internet reputation, vacanze a Dubai. La novità vera sta nell’efficace impegno di pilotaggio delle nomine di vertice nelle Procure. Ma lo stile del mestiere, con tanto di elenchi, rivelazioni e registrazioni “al sicuro”, rientra pienamente, tanto più nel consueto clima di guerre per bande, in quello storico serraglio di intraprendenti, arrembanti, empatici e loschi personaggi. Ora maneggioni, ora pirati e capitani di ventura, cortigiani accreditati, ex venditori di tappeti e di materassi, colli torti dotati della più malevola ipocrisia ecclesiale, ma anche goliardoni attempati da casino e da trattoria, millantatori sparapalle e cani da pagliaio. L’esito di tale gallery è che in Italia non c’è scandalo che non contempli il suo faccendiere di riferimento in riprovevole operatività, ma come avviene per i funghi, occorre smuovere bene il fogliame del sottobosco perché essi si attraggono a vicenda e non sai mai bene chi sta fregando chi.
Siamo, grosso modo, alla terza o quarta generazione, quest’ultimissima magari camuffata dietro i titoli di “lobbisti” e “facilitatori”. Dal secondo dopoguerra, con ragionevole approssimazione, si può azzardare che il capostipite dei faccendieri sia il marchese (titolo controverso) Ugo Montagna (di San Bartolomeo), misterioso, elegante, gran cacciatore nella tenuta di Capocotta, spregiudicato deus ex machina dell’affare Montesi in qualità di procacciatore di affari e “partite di piacere”, prima per i fascisti e poi per la entrante nomenklatura democristiana. Così come il titolo di presidente onorario della categoria tocca di diritto a Licio Gelli, il Maestro Venerabile della P2, anche lui nominato conte dall’esiliato Re, il cui esoterismo praticone andava a braccetto con le passioni cardinalizie del suo sodale Umberto Ortolani, donde l’immaginifico abbinamento “Il Gatto e la Volpe” da parte della vedova del povero banchiere Roberto Calvi.
Sulla figura di Gelli, che si dilettava a scrivere poesie e nascondeva lingotti d’oro nelle fioriere di Villa Wanda, esiste una abbondante bibliografia e una montagna di atti parlamentari e giudiziari che sono arrivati a coinvolgerlo nelle stragi. Imprenditore dell’anticomunismo, scappò nell’emisfero australe; imprigionato in Svizzera, evase e si fece fotografare travestito da suonatore di organetto a Nizza. Ma anche qui il tratto più significativo era la dislocazione dei suoi ospiti, a mo’ di catena di montaggio, nelle tre stanze dell’Excelsior; e mentre il Venerabile si aggirava indaffaratissimo e i telefoni squillavano, “Caro Presidente!”, “Caro ministro!”, “Eccellenza!”, “Eminenza!”, lui copriva la cornetta con la mano e sussurrava ai suoi pollastri il nome del potente facendogli l’occhiolino.
Gelli fu soppiantato da Flavio Carboni, che riforniva Calvi di pecorino sardo e come hobby destinale aveva la prestidigitazione (e il karatè); ma questi se la doveva vedere con Francesco Pazienza, che all’albo d’oro recò il coté dello spionaggio international e d’alto bordo, ricerche oceanografiche, aerei Concorde, Rolls Royce, trovando il suo Tacito nell’imprenditore ruspante Alvaro Giardili che così ebbe a presentarlo in sede di inchiesta parlamentare: «Francesco ciaveva un cervello diabbolico, parlava quattro cinque lingue e se l’incartava tutti».
Ora, sembra che tutti i faccendieri facciano una brutta fine, in realtà vale solo per quelli perdenti. Ma ce ne sono che per misteriose pulsioni si agitano, brigano e intrigano quasi solo per strabiliare il prossimo, col risultato di svelare propria impostura. Di questa tipologia per così dire creativa e quasi letteraria (Zavattini? Manganelli? Borges?) il più ragguardevole esemplare resta dell’Igor Marini, anche lui finto conte e vero stunt-man, che ai tempi di Telekom-Serbia, fiutata l’aria o imbeccato che fosse, tra un fantomatico archivio svizzero e un gigantesco rubino posseduto da un cinese, arrivò a mettere sotto accusa l’intera classe dirigente del centrosinistra inventandosi tangenti, rielaborando soprannomi (“il Rospo” Dini, “Mortadella” Prodi e “Cicogna” Fassino) e dando vita e notorietà a personaggi (il Cavalier Palermini, Padre Astolfo) inesistenti. Il tutto sotto il manto stellato della sòla che si fa arte, ma soprattutto all’insegna di quel codice tutto italiano, per cui la realtà inesorabilmente va a confondersi con la sua rappresentazione e la vita con la sua messa in scena.
È ovvio che ogni faccendiere fa storia a parte, certo più avvincente delle normali traversie del potere. Dal pre-Tangentopoli a Phoney-money, dai ricettori delle dazioni perseguiti da Mani Pulite al post-craxiano Walterino Lavitola che, specializzatosi in Sudamerica per Berlusconi, conduce oggi un ristorante di pesce a Monteverde, sono sempre storie a loro modo anche istruttive. “Uomo di relazioni” si definì Gigi Bisignani e non è un caso che Gianni Letta abbia usato per lui la stessa espressione: «Amico di tutti, il più conosciuto che io conosca». Celebrato in almeno un paio di volumi come “L’uomo che sussurra ai potenti” (con Paolo Madron, Chiarelettere, 2013) e scrittore di gialli lui stesso, “Bisi” assomma allegra prontezza, disavventure giudiziarie e sbuffi di mondanità nella diuturna opera di sondare, sponsorizzare, intercedere, ma anche pensare e presentare libri: «Può arrivare un po’ dovunque», secondo l’ex onorevole, attore, producer anche dell’Eliseo Luca Barbareschi.
Se i confini fra gli ambiti, fra teatro mirato e botteghino, sono saltati, i machiavellici free-lance dell’intrallazzo subito ne hanno tratto vantaggi. E tuttavia nello scorrere del tempo e nella varietà della specie, le costanti, si vorrebbe dire l’anima, restano. C’è sempre un tesoro di dubbia provenienza; non manca mai un sentore di dossier; ma specialmente si avverte la più acuta sensibilità nel comprendere le debolezze altrui per sfruttarle ai propri fini. Àmara o amara è del resto la natura umana.