L’intesa tra Usa ed Europa per la tassazione delle multinazionali per ora resta sulla carta. E la nuova legge varata da Roma si è rivelata inefficace. Così, gran parte dei profitti del gruppo di Jeff Bezos vengono ancora trasferiti in Lussemburgo, dove le imposte sui profitti sono prossime allo zero

Tanto rumore per nulla. Mentre Stati Uniti e Unione Europea annunciano con grande enfasi un primo parziale accordo sulla tassazione delle multinazionali, la web tax italiana, a suo tempo descritta come l’arma decisiva per mettere all’angolo i giganti della Rete, si è rivelata un’arma spuntata. Nei calcoli del governo la nuova imposta avrebbe dovuto fruttare circa 700 milioni di euro. E invece, come ha spiegato in Parlamento il ministro dell’Economia, Daniele Franco, l’incasso non ha superato i 230 milioni. La novità, introdotta per la prima volta con la legge di bilancio del 2019 e poi due volte rinviata, aveva uno scopo preciso. Colpire il quartetto identificato dagli analisti come Gafa, cioè Google, Apple, Facebook e Amazon, accusati di trasferire in paradisi fiscali come il Lussemburgo e l’Irlanda gran parte degli enormi profitti realizzati negli altri Paesi dell’Unione Europea. L’imposta consiste in un prelievo del 3 per cento calcolato sul fatturato di gruppi che forniscono servizi digitali con un giro d’affari annuo di almeno 750 milioni. Vengono quindi tassati i ricavi e non gli utili, nel tentativo di intercettare flussi finanziari miliardari che prima che diventino invisibili al fisco.

 

A quanto sembra però la soluzione della web tax, come molti analisti avevano previsto, ha dato risultati modesti, di molto inferiori rispetto alle attese del governo di Roma. Non ci sono dati su quanto di preciso abbiano pagato i colossi digitali che dominano l’economia mondiale, la borsa di Wall Street e anche le nostre vite. Nel caso di Amazon, come L’Espresso è in grado di rivelare sulla base di documenti inediti, l’effetto del nuovo regime fiscale sui conti delle filiali italiane del gruppo è stato trascurabile. La tassa supplementare si aggira intorno a 10 milioni di euro. Questa è la somma indicata nel bilancio 2020 di Amazon online Italy, alla voce “Altri debiti tributari”, che nelle note viene spiegata come “correlata (…) alla Digital service tax il cui pagamento avverrà nel mese di marzo 2021”, scadenza che poi è stata prorogata al maggio successivo. Nulla cambia invece per le altre due società con base in Italia controllate dalla multinazionale di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo. La nuova imposta, infatti, non si applica alla Amazon Italia logistica e alla Amazon Italia transport, che sommate insieme valgono oltre un miliardo e 350 milioni di ricavi, contro i 300 milioni circa della già citata Amazon online Italy.

 

Nel 2020, l’anno della pandemia, il giro d’affari del supermercato globale ha fatto segnare un aumento record e anche nel nostro Paese gli incassi riportati nei bilanci delle tre filiali con sede a Milano sono quasi raddoppiati da 961 a 1,7 miliardi. Gli utili però restano bassi. Il margine di profitto al lordo di imposte, ammortamenti e interessi non arriva al 3 per cento. Questi numeri sono il frutto di una situazione molto particolare, che da sempre alimenta i sospetti del fisco. Bilanci alla mano si scopre infatti che le tre Amazon italiane sono legate a doppio filo con le holding lussemburghesi del gruppo. Le società tricolori forniscono servizi alle capofila con base nel Granducato, oppure, in qualche caso, li ricevono. Se i compensi per queste prestazioni vengono fissati a prezzi più alti, oppure più bassi, rispetto a quelli correnti sul mercato tra aziende indipendenti tra loro, ecco che diventa un gioco da ragazzi manipolare i conti per spostare i profitti verso un Paese come il Lussemburgo, dove le tasse sugli utili societari sono prossime allo zero.

 

Queste pratiche contabili sono da tempo nel mirino delle autorità fiscali italiane. Già nel 2017, il gruppo Usa accettò di pagare 100 milioni di euro per metter fine a una vertenza con l’Agenzia delle entrate. L’inchiesta riguardava gli anni tra il 2011 e il 2015 quando, secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza, Amazon avrebbe evaso imposte per circa 130 milioni.

 

La multinazionale statunitense tira le fila di tutto il business nel Vecchio Continente grazie un complicato sistema di holding. In cima alla catena di controllo troviamo la Amazon Europe Core a cui fa capo la Amazon Eu. La prima ha chiuso il 2020 con ricavi per 10,3 miliardi di euro e 2,2 miliardi di profitti su cui però ha versato imposte per soli 21 milioni. Amazon Eu invece, l’anno scorso non ha pagato tasse, visto che il conto economico si è chiuso in rosso per oltre un miliardo su un giro d’affari di 43,8 miliardi di giro d’affari, con un aumento del 30 per cento rispetto al 2019. Queste cifre, però, lasciano il tempo che trovano. Il gruppo americano, infatti, non ha mai pubblicato un bilancio consolidato delle sue attività europee. Un bilancio che consenta di fare chiarezza anche sul fronte fiscale, eliminando le innumerevoli sovrapposizioni di costi, ricavi, debiti e crediti tra le decine e decine di società che gestiscono le piattaforme commerciali nei vari Paesi del continente. Nella scuderia Amazon con base in Lussemburgo troviamo, per esempio, un’altra holding, la Amazon Service Europe, che ha depositato un bilancio con 17,7 miliardi di ricavi e oltre 400 milioni di profitti dopo il pagamento di imposte per circa 115 milioni. In mancanza di un bilancio consolidato europeo diventa quindi molto difficile orientarsi tra tutte queste sigle.

 

Di certo negli ultimi anni l’impero di Bezos ha visto aumentare di molto il proprio giro d’affari e nell’anno del Covid con milioni di consumatori costretti a fare acquisti sul web, il fatturato in Europa ha letteralmente preso il volo, così come è successo negli Stati Uniti e nel resto del mondo. A livello globale le vendite di Amazon l’anno scorso hanno raggiunto i 386 miliardi di dollari (contro i 280 miliardi del 2019), una cifra che, tradotta in euro, supera il Pil prodotto dall’intera Lombardia. Il valore del gruppo a Wall Street è aumentato del 70 per cento da marzo 2020, all’inizio della pandemia, e ora viaggia intorno ai 1.630 miliardi dollari, il doppio dell’intera Borsa italiana. Anche i profitti nel 2020 sono cresciuti da 13,9 miliardi a 24,1 miliardi di dollari. A questa cifra vanno sottratti 2,8 miliardi, che sono il totale delle tasse pagate dal gruppo statunitense in giro per il mondo. Come dire che il prelievo non arriva al 12 per cento.

 

«Paghiamo tutte le imposte previste dalla legislazione fiscale di ogni singolo Stato in cui operiamo», con queste parole i portavoce del gruppo Usa hanno sempre respinto sospetti e accuse. E di recente, il 12 maggio scorso, la corte di Giustizia europea ha dato ragione ad Amazon nella controversia con la Commissione Ue che accusava la multinazionale di aver ricevuto 250 milioni di aiuti di Stato sotto forma di favori fiscali da parte del Lussemburgo. Secondo i giudici, i fatti contestati da Bruxelles non sarebbero sufficienti a dimostrare che tra il 2006 e il 2014 il Granducato avrebbe garantito al gruppo di Bezos vantaggi tali da violare le norme europee sulla concorrenza.

 

Amazon ha così segnato un punto a proprio favore, ma la partita è tutt’altro che conclusa. I grandi Paesi europei sono ben decisi a riformare un sistema che fin qui ha favorito i giganti digitali. In gioco ci sono miliardi di euro di gettito fiscale, soldi che farebbero molto comodo alle casse pubbliche. A maggior ragione in una fase storica in cui, ovunque nel mondo, il debito degli Stati è volato ai massimi dal dopoguerra per via delle spese extra legate alla pandemia. La web tax introdotta dal governo di Roma e, con alcune varianti, anche in Francia, Spagna e Gran Bretagna non sembra però in grado di risolvere il problema.

 

L’esperienza italiana dimostra che il gettito aumenta di poco e l’imposta si è anche rivelata molto complicata da applicare, come hanno sottolineato numerosi analisti. Inoltre, nei mesi scorsi l’introduzione della nuova tassa è stata pesantemente criticata dal governo americano, che la considera nient’altro che una misura discriminatoria nei confronti di grandi imprese che battono bandiera a stelle e strisce. Per questo motivo Washington ha anche minacciato una risposta a suon di dazi verso le imprese europee.

Per mettere un freno alle manovre fiscali dei colossi digitali sarebbe necessario un accordo globale sulla tassazione dei profitti delle multinazionali. E proprio questa sembra la strada su cui sembrano indirizzarsi le trattative tra le due sponde dell’Atlantico, dopo il primo accordo raggiunto sabato scorso alla riunione dei ministri delle Finanze del G7. L’idea è quella di arrivare a un’aliquota minima da applicare a tutte le aziende attive su scala mondiale. L’amministrazione Biden, che resta per principio contraria alla web tax, ha proposto di fissare al 15 per cento il prelievo sui profitti dei super gruppi. I paradisi fiscali verrebbero tagliati fuori perché ogni azienda pagherebbe comunque l’imposta minima stabilita a livello internazionale, che verrebbe prelevata materialmente nel Paese dove l’impresa ha la propria sede principale per poi essere redistribuita nei singoli Stati dove la multinazionale è attiva. Gli ottimisti sperano che già nella riunione del G20 a presidenza italiana in programma dall’8 all’11 luglio a Venezia si possa arrivare a una prima intesa su quella che è stata definita “Global minimun tax”. Nella migliore delle ipotesi, quello sarebbe però solo il punto di partenza per arrivare a definire le modalità di applicazione della nuova tassa. Sarà un lavoro complicato che durerà mesi e nonostante i buoni propositi espressi da Washington fino a Bruxelles, il successo è tutt’altro che garantito.

LEGGI ANCHE

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 25 aprile, è disponibile in edicola e in app