Aborto, femminicidio, disparità salariale. Le canzoni incise nel 1974 da due musiciste d’avanguardia non vennero pubblicate per ragioni di mercato. Ma sono ancora attuali e ora finalmente si possono ascoltare

Come suona “Donna Circo”, il primo disco femminista della musica italiana? «Come una fotografia scattata da due donne della loro condizione nel 1974, cioè quando è stato scritto. Infatti nelle sue canzoni si parla di aborto, femminicidio, disparità salariale. Insomma, il dibattito di allora; ma senza militanza ideologica, solo per necessità di raccontare noi stesse e le nostre difficoltà».

 

Gianfranca Montedoro – cioè Giulia Zannini Montedoro, cantante jazz classe 1940, catanese poi trapiantata a Roma – su quell’album ha messo faccia, voce, musica. I testi, invece, li ha firmati Paola Pallottino, paroliera già al fianco di Lucio Dalla in “4/3/1943” nel 1971. E che oggi ricorda all’Espresso: «Io e lei, insieme, eravamo un’eccezione, un’assurdità negli anni Settanta dei cantautori maschi impegnati nel sociale».

 

Un’eretica, Paola Pallottino. «All’epoca le donne in Italia venivano considerate solo come interpreti, mai come autrici. Di conseguenza venivo vista come un’aliena perché scrivevo le parole per Lucio». E quali parole: nella sua versione, “4/3/1943” si intitola “Gesù Bambino” e descrive una ragazza madre che gioca “alla Madonna” con un bambino che, da adulto, “bestemmia” fra “i ladri e le puttane”. Poi, prima di presentarsi all’Ariston, la censura avrebbe edulcorato quei passaggi, ma senza impedirle di arrivare al pubblico in una veste un minimo fedele all’originale, fino a diventare un classico di Sanremo. E dire che «il Festival, se proprio dovevo guardarlo, lo vedevo per riderne». Tradotto: «Come ragazza non mi sentivo rappresentata da quel modo di intendere lo spettacolo».

 

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È anche da questo distacco che nascono le liriche “Donna Circo”, che manda all’amica Montedoro con la richiesta di far loro ciò che di solito faceva Dalla – «Prendere le mie poesiole, trasformarle in canzoni». Risultato: due donne appena più che trentenni, per la prima volta, mettono in musica la loro condizione. O meglio, ci provano. Perché poi le parole si perdono, di nuovo. Non per censura stavolta, ma per questioni di mercato: l’lp dopo essere stato registrato non viene mai pubblicato. «E io», spiega Pallottino, «conosco solo la versione ufficiale dei fatti: la nostra etichetta di allora, la Basf Fare, a giorni dall’uscita si ritira non ritenendo più conveniente investire nella musica. Col tempo mi hanno raccontato di altri lavori pronti alla distribuzione che hanno subito lo stesso destino».

 

Certo è che, al posto loro, degli uomini avrebbero avuto meno difficoltà a far arrivare il disco sulla scrivania di un editore disposto a offrirgli una seconda chance. Problema di contatti? «Non so. Col senno di poi avrei potuto presentarlo ad altri, è vero. Ma per la delusione non riuscivo a ragionare su come rimediare a quanto successo». Tant’è che da lì si sarebbe defilata dal mondo dello spettacolo per dedicarsi allo studio dell’illustrazione, mentre Montedoro si sarebbe ritirata dalle scene per una decina d’anni, prima di tornare al jazz e non pubblicare più un album solista. Giusto adesso ne parla volentieri: «Fu una crisi profonda, che coincise con problemi personali. In realtà avevo provato a far girare un po’ quei nastri. Ho bussato a qualche porta. Nessuna risposta».

 

Rimpianti? «Che fossi sola in tutto ciò: il produttore dell’epoca, Roberto Marsala, non fece nulla per aiutarci a trovare un’altra etichetta. Al tempo stesso io e Paola eravamo cani sciolti: mentre si formavano i primi clan, non frequentavamo salotti e amici potenti, e in questo senso partivamo svantaggiate; a me interessava solo la musica, ed è inutile dire che la strada era tutta in salita».

 

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Così, nell’indifferenza generale, “Donna Circo” rimane un album fantasma di cui si perdono le tracce. Nessuno ne parla, tantomeno lo si può ascoltare, e questa mosca bianca della nostra musica resta sepolta per quarantasette anni. Fino alla scoperta recente: fra amicizie e passaparola, nel 2019 la cantante Suz – cioè Susanna La Polla – e Pallottino stessa riescono ad aprire una raccolta fondi per pubblicare i nastri originali e un loro remake, “Donnacirco”, a opera di artiste.

 

Entrambi sono finalmente in uscita proprio in queste settimane per La Tempesta dischi. E fra i nomi che hanno partecipato, ci sono voci come Angela Baraldi e Alice Albertazzi, Eva Geatti e Francesca Bono, Enza Amato, NicoNote, Vittoria Burattini dei Massimo Volume, per un totale di dodici interpreti, quattro musiciste, l’illustratrice Francesca Ghermandi per la copertina ed Ezra Capogna – l’unico uomo nel progetto – alla produzione. «A livello di suoni, l’originale è un po’ invecchiato, con arrangiamenti progressive, barocchi in stile anni Settanta, su cui com’è normale che sia, siamo intervenute», spiega Burattini. Poi puntualizza: «Come molte colleghe non sapevo niente di questa storia; ma ci ha colpite subito l’attualità dei testi». «La sensazione», precisa Baraldi, «è che la musica da allora si sia evoluta, mentre la condizione femminile sia rimasta la stessa».

 

«E infatti “Donna Circo” parla ancora a tutti, ma questo non è certo un bel segnale», sorride amara Pallottino. I suoi versi, ribadisce, non sono militanti ma surreali, pieni di metafore, concreti più che idealisti. «E nati non dalla rabbia, ma dall’imbarazzo di essere ragazza nell’Italia degli anni Settanta, dal non sentirmi rappresentata, né protetta. Dalle contraddizioni che vedevo. Basti pensare che era ammesso il delitto d’onore. Volevo rispondere a un’urgenza, parlare della nostra situazione». Il risultato è senza precedenti, spiazzante, con pochi riferimenti a cui aggrapparsi anche oggi. E oltretutto figlio di un periodo in cui le donne erano ai margini della musica specie dal punto di vista autorale.

 

«Ma direi proprio della canzone stessa», precisa Montedoro. «Eravamo ritratte in maniera superficiale dentro storie d’amore piatte, oppure sempre col filtro di cantautori uomini. Facevamo finta di niente, ma nel registrare l’album eravamo isolate: era un sistema maschilista. In questo senso, i testi di Paola mi avevano folgorato perché avevano una profondità diversa rispetto al resto».

 

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Appunto, quegli stessi testi che – nel Paese degli anni di piombo che scopre i primi diritti civili, il divorzio, l’emancipazione – avrebbero dovuto funzionare da bussola, con la metafora del circo e dei suoi numeri a mascherare una corsa a tappe su aborto, femminicidio, disparità salariale e stereotipi di genere, sempre dal punto di vista di chi viene discriminato. Per esempio, fra i brani c’è “A cuore aperto” che allude all’interruzione di gravidanza clandestina fra corpi tagliati e illusionisti («Lei gli dà il bisturi senza lamento / e lui comincia l’esperimento»), mentre “La tigre del Bengala” è un’allegoria di uomini che uccidono le compagne (come pure “Trenta coltelli”, in cui l’immagine dei prestigiatori si presta al racconto dei rischi della convivenza forzata) e “Che pazzi i pagliacci” se la ride del patriarcato. «Siamo nel 2021, e non è cambiato nulla rispetto 1974», dice Pallottino. «C’è bisogno di un lavoro come questo. Spero possa arrivare a un pubblico giovane», compiere la sua missione originale, «sensibilizzare, magari indurre all’autocoscienza le ragazze».

 

Anche per questo è uscito “Donnacirco”, remake aggiornato nel suono e volutamente intatto nei testi, più vicino all’indie-rock delle interpreti che al progressive di allora. Un’operazione che, per Burattini, ha pure «un valore simbolico». Cioè? «L’originale è scritto e composto da donne, è vero, ma ha avuto “bisogno” di uomini – cioè dei componenti della band Murple – per essere suonato e registrato. Stavolta invece gli aspetti della produzione sono tutti al femminile, segno che nel frattempo si sono formate quelle musiciste che prima mancavano».

 

Pure per questo, sostiene, per le ragazze che oggi salgono su un palco è tutto «difficile ma non difficilissimo», perlomeno rispetto agli anni Settanta. «L’ambiente non è misogino in senso attivo; è gestito da maschi che per cultura e abitudine ne chiamano altri quando serve qualcosa. Ma finalmente stiamo alzando la voce, andando oltre stereotipi come quelli che ritengono che il rock sia un genere da uomini. Il prossimo passo è un aumento della nostra presenza nelle professioni tecniche, come il fonico. Ne vedremo delle belle. E un disco che fotografa una situazione come questo, per me, è schierato anche più di uno “politico” in senso stretto».

 

Perché «una canzone può e deve essere impegnata, non solo intrattenimento», puntualizza Baraldi. Che poi riflette: «“Donna Circo” ci insegna che nel dibattito cambia la forma, non il contenuto. Il femminismo serve ancora, eccome. Quando io ho iniziato a cantare, nel 1990, sentivo diffidenza intorno; ora ho vissuto parte del cambiamento sulla mia pelle, qualcosa si sta sbloccando. Ma la strada è lunga». «Se ripenso che all’epoca non potevo affidarmi a delle musiciste semplicemente perché non ce n’erano», conclude Montedoro, «mi sembra assurdo. Ora che tutti possono ascoltare quest’album, credo si chiuda un cerchio. Mi sento meglio. E vorrei che le donne continuassero a unirsi come me e Paola nel 1974. Anche per dimostrare ai maschi che è ora di “darsi una calmata”». E per chiudere per sempre il “circo” in cui, dopo quarantasette anni, la protagonista dell’album è ancora intrappolata.