La testata fondata da Enzo Paci festeggia. Un laboratorio di confronto internazionale e di resistenza che ha accompagnato il pensiero critico italiano dal post-fascismo al Sessantotto, da Sartre a Derrida

Qualche anno fa ho intitolato un’antologia, a testimonianza del percorso attraversato dalla rivista “aut aut”, “Il coraggio della filosofia” (il Saggiatore). La rivista era stata fondata da Enzo Paci nel 1951 per combattere l’immobilismo del ventennio fascista e rilanciare la filosofia come pensiero critico: un’idea di filosofia che potesse staccarsi da ogni accademismo e dai suoi rigurgiti metafisici per assumere un compito pratico e un impegno politico-culturale, che avesse, appunto, il “coraggio” di smarcarsi dai filosofemi per trovare un senso ai comportamenti quotidiani di ogni cittadino.

Per fare questo bisognava, al tempo stesso, rompere i confini disciplinari e arricchire la parola “senso”, rendendola meno superficiale possibile: occorreva dunque aprirsi all’enciclopedia dei saperi, trovare apporti essenziali alla consapevolezza critica tanto nel mondo letterario quanto nella ricerca scientifica. C’è innanzi tutto da chiedersi se e quanto un simile programma sia invecchiato o addirittura uscito di scena rispetto alla situazione di oggi. Non è difficile rispondere che, al contrario, è rimasto attuale, anzi che con l’aria che tira adesso nell’ambito culturale – un’aria sempre più rarefatta e inquinata dai social – ce ne sarebbe un gran bisogno.

Perciò i settant’anni di “aut aut” non sono la ricorrenza di un evento soltanto da ricordare, ma la presa d’atto che non è certo un caso questa inconsueta longevità.

 

Enzo Paci ha passato la mano a chi scrive queste righe a metà degli anni Settanta, in un periodo molto diverso per entusiasmi e scontri sociali, poi c’è stato il cosiddetto “riflusso”, poi, poi, poi. E comunque, tra mille ostacoli, la rivista ha cercato di tenere la barra nella direzione verso cui aveva cominciato a navigare fin dall’inizio del suo viaggio. Non sta certo a me dirlo, tuttavia non si tratta di semplice sopravvivenza, piuttosto di resistenza ai venti che potevano, e ancora possono, far affondare questa piccola imbarcazione.

 

Applicando uno dei dispositivi di pensiero che hanno tenuto in piedi un simile “coraggio” di pensiero, quell’epoché o sospensione di giudizio che Paci aveva prelevato dalla fenomenologia e saputo immettere nelle pagine della sua rivista trasformandola in un compito pratico, cioè spostandomi un po’ a lato, direi che il fatto che “aut aut” sia oggi ampiamente conosciuta a livello internazionale (e che stiamo di conseguenza avvertendo l’esigenza di mettere a disposizione di tutti una digitalizzazione completa della sua storia), deve affiancarsi alla dolente constatazione che il pensiero critico oggi langue e ha bisogno di essere rinvigorito, approfondito, radicalizzato il più in fretta possibile.

 

Difficoltà oggettive e immaginabile stanchezza di un lavoro che, per non snaturarsi, ha sempre voluto restare quasi artigianale, non hanno indotto il gruppo di “aut aut” (una decina di redattori, anche di diversa provenienza, tutti però convinti dell’importanza dell’obiettivo da perseguire) a chiudere baracca: per quanto possa sembrare paradossale, non sono i tanti e “gloriosi” anni trascorsi ai quali rivolgere soprattutto lo sguardo, ma quei tanti o pochi che costituiranno il futuro prossimo della rivista, a tenere ben aperta la scena, nella convinzione che quell’inizio possa e debba avere ancora molta importanza e non sia stato ancora veramente realizzato.

 

“Aut aut” ha conosciuto una lunga avventura: il primo ventennio ha segnato l’ingresso nella fenomenologia concreta e la messa in atto del progetto di enciclopedia critica dei saperi promosso dal suo fondatore, i cui interessi spaziavano dall’architettura al teatro, dall’antropologia alla psicoanalisi, ed erano tenuti assieme da un’idea comune di “fondazione” attraverso il pensiero filosofico.

 

Il polo di riferimento era Milano, in quegli anni culturalmente molto dinamica, e in particolare l’Università degli Studi di via Festa del perdono, in pieno centro. Le lezioni di Paci erano intense e affollatissime, lontane da qualunque accademismo: le seguii prima come studente poi come assistente, ricordo che il primo corso che ascoltai riguardava un testo di Claude Lévi-Strauss, “Il pensiero selvaggio”, di cui non era ancora uscita la traduzione italiana.

 

Di lì a poco, un sabato mattina (lo spazio dedicato alle relazioni degli studenti), emozionatissimo, ebbi l’opportunità di presentare, insieme a Salvatore Veca, un’esercitazione su teatro e fenomenologia: lo menziono perché da lì nacque la mia prima collaborazione con “aut aut”. Paci ci disse: bene, mettetelo a posto, ve lo pubblico sulla mia rivista. Lui aveva un ottimo rapporto con l’intellighenzia milanese, ma anche una grande prossimità con i giovani studenti: “aut aut”, già ben conosciuta, non era lassù in cima alla torre, ma lì presso di noi, accessibile, molto letta dagli studenti e anche vicina ai loro problemi, al punto che non mancherà di far sentire la sua voce nella bagarre del Sessantotto. Già fin da questa prima fase la rivista aveva un taglio marcatamente internazionale ed era assai poco interessata alle beghe filosofiche nostrane, basterebbe ricordare il dialogo intenso che portò avanti con le posizioni di Jean-Paul Sartre.

 

Nel decennio successivo il confronto tra fenomenologia e marxismo venne sviluppato attraverso il tema dei bisogni che rappresentava un atteggiamento critico peculiare nella discussione sulla non cancellabile “radicalità” del bisogno stesso. In proposito occorrerebbe richiamare almeno il colloquio diretto con la pensatrice ungherese Ágnes Heller.

 

Si avvicina così il momento in cui “aut aut” incontra il pensiero di Michel Foucault, che produrrà diverse importanti risonanze, soprattutto a proposito del rapporto tra potere e sapere. Viene fatto tesoro dell’evidenza che nessuna modalità del sapere può considerarsi immune dagli effetti del potere, inclusa la filosofia stessa. Questo punto risulta decisivo sia per dare continuità rispetto all’origine della rivista come laboratorio di un pensiero critico e autocritico, sia per innescare la stagione del “pensiero debole” (come critica radicale di ogni pensiero basato sul potere) che prenderà avvio negli anni Ottanta quale contrappeso alla cultura del “riflusso” ed è restato fino a oggi la linfa più significativa per il lavoro di “aut aut”.

 

Gli agganci e i rilanci avvenuti negli ultimi decenni sono molteplici, da Derrida a Bateson, passando anche attraverso la psicoanalisi (soprattutto Lacan) e la psichiatria anti-istituzionale. Riguardo a quest’ultima - comunque già presente al tempo della direzione di Paci - il rilancio è avvenuto anche grazie allo stesso Foucault, attraverso la sua “Storia della follia”.

 

Ci si potrebbe chiedere, in conclusione, se davvero oggi la rivista corre sullo stesso binario su cui si era incamminata nel 1951, se non abbia subìto deragliamenti o rallentamenti sensibili: può essere così, ovviamente, ma la corsa sembra rimasta la medesima, nonostante gli ostacoli frapposti da una cultura frenante e al tempo stesso sempre più pervasiva.

 

Può essere proprio questa continuità, cioè l’idea di un obiettivo da guadagnare mediante una riflessione indipendente e radicalmente critica, ciò che riesce ancora ad animare l’impegno dell’attuale redazione e a mantenere positiva la risposta dei lettori.