La donna che interrompe la gravidanza è ancora bollata come criminale. Cattolici e sinistra divisi come in Italia 40 anni fa nella campagna tra il si e il no. Il prete: «Non bisogna avere paura di dire la verità, il nostro Stato sostiene il diritto alla vita fin dal concepimento»

«Benvenuti nell’antica terra della libertà» è la scritta che accoglie chi entra a San Marino, lo stato di 35mila abitanti disseminati in nove comuni, chiamati «castelli», all’ombra del monte Titano. «Libertà» è la parola più ricorrente nella prima Repubblica del mondo, talmente presente, dalla toponomastica ai cerimoniali duecenteschi, da sfumare anche quando svetta. Come la statua ottocentesca a lei dedicata, bianchissima nel suo marmo, eppure assorbita dalle scure pietre dorate del Palazzo Pubblico. Per la sua inaugurazione, il poeta Marino Fattori scrisse: «La statua è un sasso muto, un semplice emblema. Il culto della libertà deve esser vivo nei petti», e oggi 26 settembre un referendum storico per i sammarinesi deciderà se depenalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) sia parte di tale culto per la libertà o una semplice pretesa.


A San Marino l’aborto è punito con il carcere. È quanto prescrive il codice penale sammarinese, che lo eredita da quello del 1865: secondo gli articoli 153 e 154, la donna che interrompe la gravidanza e chi l’aiuta a farlo rischiano da sei mesi a tre anni di carcere, con pene più lievi nel caso di «aborto per motivo d’onore», cioè nel caso in cui il feto sia frutto di una relazione extra-coniugale.

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Per l’Unione donne sammarinesi (Uds), in ballo c’è una visione della donna ancorata a un retaggio culturale rimasto invariato nei secoli: «Il quesito referendario prevede la possibilità per la donna di abortire entro i sei mesi di gestazione e interrompere la gravidanza anche dopo la 12esima settimana, se in pericolo di vita della donna o in presenza di anomalie e malformazioni del feto che comportino un rischio per la sua salute», spiega Karen Pruccoli, presidente dell’Uds, in prima linea per sostenere il sì alla depenalizzazione dell’aborto. In queste ultime settimane lei e altre donne, dall’età e dai vissuti diversi, hanno fatto più divulgazione possibile, i foulard viola della loro battaglia come vessillo di un destino civile giunto al giro di boa. Mai come in questo caso, un tema prettamente femminile è divenuto una questione di Stato: «Neppure quando nella Costituzione è stato introdotto il divieto alla discriminazione per orientamento sessuale c’è stata una campagna così feroce», aggiunge Giulia Vitali, ingegnere di 31 anni, prima donna-tecnico nell’Azienda dei lavori pubblici di San Marino.


«L’Unione è nata due anni fa, ereditando la lunga militanza dell’Associazione donne sammarinesi», spiega la fondatrice, Vanessa Muratori, che ai tempi in cui fu consigliere, l’equivalente del parlamentare in Italia, presentò una prima proposta di legge per legalizzare l’Ivg, ma venne bocciata: «Due voti contro sedici in commissione. All’epoca, non trovai neppure l’appoggio di quelle forze tradizionalmente laiche e di sinistra», confessa. Oggi poco è cambiato. Malgrado in Consiglio ci sia una coalizione formata da partiti più progressisti, come Rete e Libera, la maggioranza resta ancorata al Partito democratico cristiano, da cui viene la resistenza maggiore: «Solo la Democrazia cristiana ha dato indicazioni di voto, ma conosco diversi credenti che sono a favore della depenalizzazione», spiega Alberto Spagni Reffi, consigliere di 28 anni del partito Rete. Marilia Reffi, pasionaria della lotta femminista sammarinese, ne fa una questione generazionale: «Qui i giovani hanno un candore che noi abbiamo perso. Vivere in questo Paese è la morte civile». Quella che San Marino sta vivendo nel 2021 sembra la riproposizione di un copione già scritto in Italia nel ’78, quando il referendum sull’aborto venne osteggiato dalla Democrazia cristiana. Poi vinsero i sì e l’aborto fu regolamentato con la legge 194 del 22 maggio 1978. Il quesito referendario sammarinese ricalca proprio quella legge, per armonizzare il suo ordinamento a quello italiano.

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Secondo una stima de Il Giorno, nel 1972, prima della legge 194, in Italia si contavano fra i tre e quattro milioni di aborti clandestini, con un alto rischio di mortalità per la donna stessa. Oggi una sammarinese che decide di abortire lo fa di nascosto, in Italia, dove arriva a spendere circa 1.500 euro. Oltre le mura della Repubblica, però, dovrà mantenere il segreto, evitando che ricada su di lei la lettera scarlatta della colpa: «Le donne diventano delle isole, mentre sarebbe un loro diritto essere seguite dalla sanità pubblica», dice Vanessa D’Ambrosio, 32 anni, protagonista della prima co-reggenza della Repubblica tutta al femminile nel 2017.

Per don Gabriele Mangiarotti, cappellano della chiesa di san Francesco, si tratta di un’esagerazione: «Qui il fenomeno degli aborti clandestini non è così rilevante. A San Marino non si trovano fenomeni di una malvagità tale, non siamo in Italia dove il pericolo è invece grave», esclama.

Passare dalle parole ai numeri è complesso, perché per privacy gli ospedali dell’Emilia-Romagna non diffondono dati sulle Ivg sammarinesi. Andrea Pozzati è membro di Noi ci siamo San Marino, un’associazione nata per supportare i giovani sammarinesi vittime di violenze o stupri: «Ci occupiamo quotidianamente di violenze e siamo al corrente di ragazze che vanno ad abortire a Rimini. Ma dopo? Una ragazza andrebbe seguita psicologicamente e questo non è possibile qui. È etico tutto questo?» Il codice penale sammarinese punisce l’aborto senza alcuna eccezione, anche in caso di pericolo di vita della donna.


Negli anni Ottanta sono noti casi di aborto terapeutico prescritti da medici in situazioni gravi, invocando il cosiddetto «stato di necessità» attraverso l’autorizzazione preventiva di un giudice. Eppure all’ombra della Repubblica interrompere la gravidanza resta una macchia che il diritto non dilava, l’aborto è ridotto a un interruttore che accende o spegne la luce della femminilità. Basta percorrere le mura che costeggiano porta San Francesco dove, tra i manifesti della campagna referendaria, due parole monosillabiche come «sì» e «no» sfumano tra foto di feti insanguinati o volti di ragazzi con la sindrome di Down: «Non bisogna avere paura di dire la verità, cioè che San Marino sostiene il diritto alla vita fin dal concepimento», dice don Gabriele.

 

Non la pensa così Maria Lea Pedini, prima donna Reggente nel 1981, fervida sostenitrice dell’autodeterminazione della donna: «Trovarsi, dopo quarant’anni, di fronte agli stessi toni mistificatori fa veramente male. Pensavo che questo approccio aggressivo fosse stato abbandonato». Le fa eco D’Ambrosio: «Le donne sono nell’ombra anche perché non vengono tutelate dal loro Stato, si sentono come criminali». Dietro i microfoni, trapela il nome di qualche testimone, ma parlare con loro è impossibile, neppure a voce bassa: «Rischiano il carcere. Anche un medico che ne è a conoscenza può denunciarle, altrimenti rischia un processo e una condanna penale», aggiunge Pedini.


È il paradosso nella Repubblica piena di armerie, dove la donna è una casta diva, come nel bronzo esposto davanti al palazzo della Cassa di Risparmio, o riproposta un po’ madre un po’ strega come donna Felicissima, la nemica di San Marino poi miracolata, come narra la leggenda tessuta da un’irriducibile ombra patriarcale. Nel quotidiano, molte sammarinesi sentono di vivere ancora dentro uno spazio soffocante. Fino agli anni Ottanta, una sammarinese che sposava uno straniero perdeva la cittadinanza e neppure il referendum del 1982 riuscì a scalfire ciò che due anni dopo minarono le pressioni internazionali. In quegli anni, chi abortiva finiva a processo: «Basta dare un’occhiata agli archivi della Repubblica», spiega la storica Valentina Rossi, che menziona il caso di una donna finita in tribunale dopo un ricovero d’urgenza per emorragia post-aborto: «In archivio hanno persino conservato il gancio che era stato utilizzato per l’aborto», aggiunge.


Chi agogna una Repubblica dove l’aborto non sia più penalizzato ripone fiducia nei giovani, meno ancorati alla vecchia politica e più sensibili ai diritti. Lo pensa Rosa Zafferani, politica di lungo corso: «Prima i figli seguivano l’orientamento politico dei propri genitori, oggi invece vediamo adulti che chiedono informazioni su sollecitazione dei figli».

Per le donne dell’Uds, ai giovani va dato il merito di aver picconato l’immobilità delle legislature precedenti: «Quando nel 2019 è stato necessario raccogliere le firme per convalidare questo referendum, la stragrande maggioranza era composta da giovani», sottolinea Pedini. Secondo gli ultimi dati disponibili, l’età media dei sammarinesi rasenta i 44 anni: «Gli under 40 si lasciano meno influenzare dalla propaganda denigratoria fatta in queste settimane dal comitato del no. Se andassero a votare i giovani, saremmo tutti più tranquilli», dice.

Ma nulla è così scontato, neppure nella Repubblica che ha libertà come motto. «Animus in consulendo liber», è inciso sul trono dei Capitani reggenti: è giunto il momento di dire se quella libertà così antica coincida o meno con la possibilità di scegliere.