Da tre mesi sono accampati davanti alla sede dell’Unhcr: chiedono di lasciare il Paese e denunciano torture

«Siamo rifugiati e viviamo in Libia. Veniamo dal Sud Sudan, Sierra Leone, Ciad, Uganda, Congo, Ruanda, Burundi, Somalia, Eritrea, Etiopia e Sudan. Siamo in fuga da guerre civili, persecuzioni, cambiamenti climatici e povertà dei nostri paesi di origine. Tutti noi siamo stati spinti da circostanze che superano ogni umana resistenza».

 

Inizia con queste parole il manifesto che centinaia di rifugiati e richiedenti asilo hanno firmato e diffuso chiedendo l’evacuazione verso un Paese sicuro in cui i diritti di chi è accolto sono protetti e rispettati. In Libia non accade.

 

«Per farci ascoltare ci siamo radunati davanti al quartier generale dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite, ndr) a Tripoli. Non sapevamo dove altro andare», racconta David. Oggi, dopo tre mesi, sono ancora lì.

 

La protesta è iniziata il primo ottobre, dopo l’ennesimo atto di violenza delle forze dell’ordine del Paese. Prosegue David: «Sono entrati nelle nostre case nel quartiere di Gargarish, a ovest di Tripoli. Hanno distrutto i pochi beni che possedevamo».

 

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Quel giorno e nelle due settimane successive all’incursione sono state arrestate più di 5.000 persone, tra cui centinaia di bambini. Le autorità libiche hanno giustificato il raid sostenendo di aver condotto un’operazione contro l’immigrazione clandestina e il traffico di droga.

 

«A migliaia siamo stati arrestati arbitrariamente e detenuti in campi di concentramento disumani».

 

Per David e per chi vive da anni intrappolato in un Paese che assomiglia sempre di più a una prigione è stato soltanto l’ennesimo atto di violenza da dover sopportare. «Non ne potevamo più e abbiamo deciso di ribellarci». In meno di 24 ore centinaia di rifugiati e di richiedenti asilo si sono accampati davanti alla sede del Community day center dell’Unhcr di Tripoli, in cui viene fornita assistenza umanitaria. «Saremo stati più di 2.000», aggiunge David. Chi aveva materassi e coperte le ha portate con sé.

 

Il presidio, con il passare dei giorni, è diventato permanente. Gli appelli dei manifestanti si rivolgono alle istituzioni europee e alle Nazioni Unite, affinché si attivino per garantirgli protezione e condizioni di accoglienza migliori. David al telefono dice di non voler più tornare indietro: ha 24 anni, ma le esperienze che ha vissuto hanno portato via la sua giovinezza.

 

In Libia l’Unhcr si occupa di registrare i migranti che vogliono chiedere asilo, di fornire loro supporto e di trasferirli in territori più sicuri (a patto che altri Paesi si rendano disponibili ad accoglierli). La Libia non ha mai ratificato la Convenzione internazionale di Ginevra del 1951, in cui viene definito il termine «rifugiato» e sono sanciti i diritti e i doveri da rispettare per garantire protezione. Nel Paese la possibilità di richiedere asilo è limitata a sette nazionalità, ma anche in questi casi è impossibile avviare le procedure per poter rimanere legalmente sul territorio.

 

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«Volevamo raggiungere l’Europa per cercare una seconda possibilità e siamo arrivati in Libia. Qui siamo diventati la forza lavoro nascosta dell’economia libica: solleviamo i mattoni e costruiamo le case, ripariamo e laviamo le macchine, coltiviamo e piantiamo la frutta. A quanto pare non è abbastanza per le autorità libiche: la nostra forza lavoro non è abbastanza. Vogliono il pieno controllo dei nostri corpi e della nostra dignità».

 

David è arrivato in Libia nel 2018 dal Sud Sudan, fuggiva dalla guerra. Nel 2019 ha provato a raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo: la cosiddetta Guardia costiera libica ha intercettato il gommone e l’ha riportato indietro. David ha trascorso quasi un anno in un centro di detenzione, ripete più volte di aver vissuto in condizioni disumane. Senza acqua, senza cibo. Le violenze erano continue.

 

I centri di detenzione sono luoghi di reclusione dove comanda la legge del più forte. Alcuni centri sono gestiti dalle autorità libiche, altri sono in mano alle milizie. La differenza non è molta: chi vi è rinchiuso pensa di trovarsi all’inferno.

Secondo l’associazione Global detention project, che monitora il rispetto dei diritti di chi è trattenuto in prigione per il suo status di non cittadino, sono una trentina i centri di detenzione presenti nel Paese. I migranti fermati in mare vengono rinchiusi in queste prigioni, perché per la legge libica trovarsi in una situazione irregolare sul suolo nazionale è un reato punito con la detenzione a tempo indeterminato e il lavoro forzato: chi entra in questi centri non sa quando otterrà di nuovo la libertà.

 

Nel 2017 l’Italia ha firmato con la Libia un Memorandum d’intesa per limitare l’arrivo di migranti sulle coste italiane: il governo ha offerto sostegno alla Libia nella formazione della cosiddetta Guardia costiera e nel coordinamento delle operazioni in mare. Da tempo, diverse organizzazioni internazionali hanno documentato i comportamenti illeciti delle autorità libiche e della stessa Guardia costiera, che in più occasioni ha attaccato le navi umanitarie presenti nel Mediterraneo.

 

Scrive Amnesty International nel suo ultimo report sul Memorandum d’intesa: «L’Italia ha fornito la propria assistenza senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze per le persone riportate in Libia. Pur di ridurre il numero degli approdi irregolari, le autorità italiane si sono rese complici degli abominevoli crimini di diritto internazionale commessi nei centri di detenzione».

 

Per fermare quelli che alcune forze politiche chiamano con superficialità «sbarchi», le istituzioni italiane ed europee hanno stretto accordi con un Paese in guerra che non ha un governo stabile, che non garantisce protezione e che viola costantemente i diritti di chi richiede asilo.

 

«Siamo stati intercettati dalla cosiddetta Guardia costiera libica e riportati indietro nelle prigioni e nei campi di concentramento. Alcuni di noi hanno dovuto ripetere il ciclo di umiliazioni due, tre, cinque, fino a dieci volte. Abbiamo provato ad alzare la voce e diffondere le nostre storie. Le abbiamo mostrate a istituzioni, politici, giornalisti, ma a parte pochissimi interessati, le nostre storie rimangono inascoltate».

 

David non ama ricordare cosa ha dovuto sopportare nel centro di detenzione. Ripete più volte la parola «tortura». Auto-organizzarsi per chiedere giustizia era diventata l’unica scelta possibile. «Abbiamo deciso di riunirci ufficialmente in un gruppo, Refugees in Libya»: attraverso i social network, mostrano gli sviluppi del presidio e le vessazioni che sono costretti a subire.

In uno degli ultimi video pubblicati sul profilo twitter di Refugees in Libya viene inquadrata una donna che in piedi davanti a centinaia di persone racconta la sua storia, spiegando per quale motivo è lì a protestare. Indossa un velo verde scuro, parla con le mani giunte, ha il viso rigato dalle lacrime: «Sono stata violentata da cinque uomini armati e ora sono incinta. Sono una mamma di sei figli, i miei figli più grandi sono scomparsi». Per capire cosa accade in Libia è importante comprendere che storie come queste spesso sono un vissuto comune: gli stupri sono sistematici, come le sparizioni.

 

«Non possiamo continuare a tacere mentre nessuno ci difende. Ora siamo qui per rivendicare i nostri diritti e cercare protezione».

 

Chi sta protestando da mesi davanti alla sede dell’Unhcr chiede alla comunità internazionale di intervenire, per garantire più percorsi legali con cui poter lasciare la Libia in sicurezza.

 

A oggi i migranti detenuti nei centri ufficiali sono circa 6.000, a questi si aggiungono quelli rinchiusi nelle prigioni gestite dalle milizie e quelli presenti sul resto del territorio che spesso vivono in condizioni precarie (circa 700.000, secondo gli ultimi dati disponibili). Per i richiedenti asilo e i rifugiati l’unica possibilità per poter lasciare la Libia, senza dover attraversare il Mediterraneo, è accedere ai trasferimenti o alle evacuazioni umanitarie dell’Unhcr: spesso organizzare queste operazioni è estremamente difficile, anche per il numero limitato di “posti” messi a disposizione dai Paesi disposti ad accogliere.

 

Dal 2017 l’agenzia delle Nazioni Unite ha avviato un meccanismo di emergenza per portare fuori dalla Libia i migranti più vulnerabili: in totale sono state evacuate 6.919 persone, di cui 967 in Italia. Ma solo nei primi mesi del 2021 la cosiddetta Guardia costiera ha intercettato e riportato in Libia più di 15.000 migranti. A causa dell’emergenza sanitaria, i voli umanitari sono rimasti bloccati per un anno e stanno riprendendo solo adesso, anche grazie a un protocollo d’intesa firmato dal governo italiano con la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese.

 

David chiede che le evacuazioni siano estese a tutti i migranti presenti in Libia, perché nessun essere umano merita di vivere in queste condizioni: «Chi è rinchiuso nei centri di detenzione deve essere liberato». Refugees in Libya nel suo manifesto rivolge un appello per far in modo che la Libia non sia più considerato un Paese sicuro, in cui è possibile confinare chi richiede asilo. «I nostri diritti non sono rispettati, siamo solo schiavi. Noi semplicemente non esistiamo», ribadisce David.

 

Chi è accampato fuori alla sede dell’Alto commissariato è stato più volte aggredito dalle milizie armate. Amnesty International ha chiesto alle istituzioni di intervenire e di trasferire immediatamente i migranti che stanno partecipando al presidio. Ma almeno per adesso, con il rinvio delle elezioni presidenziali fissate inizialmente per il 24 dicembre, nel Paese continuerà a regnare il caos.

 

Nonostante le testimonianze dei continui abusi, nell’ultimo anno l’Italia ha aumentato di 500 mila euro i fondi stanziati a sostegno delle attività della cosiddetta Guardia costiera libica e delle altre autorità impegnate, teoricamente, nel contrasto al traffico di esseri umani: dal 2017 sono stati spesi già 784 milioni.

 

«Siamo vittime di guerre civili, siamo vittime in fuga da persecuzioni religiose e politiche. Le autorità italiane e gli Stati membri dell’Unione Europea hanno solo aggravato le nostre anime addolorate, pagando pubblicamente e dietro le quinte le autorità libiche e le sue milizie per ucciderci nel deserto, in mare e in orribili campi di concentramento».