Credo che Vincenzo Consolo richieda oggi un’attenzione ben maggiore di quella che viene accordata ad altri di lui molto meno rilevanti: tra gli scrittori siciliani contemporanei Consolo è quello che più intensamente fa percepire e quasi toccare il corpo vivo della sua terra, il suo ambiente e la sua storia, la sua bellezza e la sua violenza, il suo fascino e il suo colpevole degrado. Giustamente Cesare Segre, all’inizio dell’introduzione al Meridiano, lo definì «il maggiore scrittore italiano della sua generazione»: scrittore che è sceso fino in fondo nel cuore del presente, nei molteplici volti della realtà, nella loro densità sociale e antropologica; scrittore che ha insistentemente interrogato il disporsi della vita nello spazio e nel tempo, tutto ciò che la storia ha addensato e che, trasformato, continua a scorrerci davanti, si muove e vibra mentre lo consideriamo e lo tocchiamo.
Come siciliano Consolo si è rivolto soprattutto alla contraddittoria realtà della sua regione, al vasto orizzonte della sua cultura e del suo ambiente, ai luoghi della propria origine personale e alle vicende che l’hanno toccata e sconvolta, al rilievo che essa ha avuto nella storia dell’Italia moderna, alle passioni e alle speranze che l’hanno animata, alla implacabile e distruttiva violenza che ha pesato su di essa, con il vario succedersi delle azioni di poteri criminali e mafiosi. Vivendo soprattutto a Milano, il rapporto con la sua isola è stato quello di un continuo e vario, mai definitivo, tornare, di un appassionato sguardo di viaggiatore che insistentemente interroga le cose perdute, trasformate, violentate. E naturalmente come scrittore non ha mai cessato di dialogare con tutti i grandi scrittori siciliani, con le forme diverse con cui essi hanno dato voce al carattere, al mistero, all’essere dell’isola: e del resto ha avuto anche modo di conoscere e frequentare direttamente alcuni maestri di precedenti generazioni, come Vittorini e Sciascia, e molto legato è stato soprattutto al secondo (ma nella giovinezza gli era capitato di avere rapporti con il più atipico Lucio Piccolo di Calanovella).
Nel quadro della letteratura siciliana Consolo occupa però un posto tutto particolare: il suo modo di guardare la realtà dell’isola, di scavare nei suoi misteri e nella sua fascinazione, si avvale di una singolare lotta con la lingua, di uno scatto espressionistico e plurilinguistico sul cui carattere ha agito proprio la suggestione del milanese Gadda. La sua è una sfida continuamente ai limiti del linguaggio, strenua ricerca della fisicità della parola, ostinata cura per un lessico legato all’evidenza delle cose, alla loro traccia concreta, alla loro consistenza biologica e materica. La sua prosa si avvolge sugli oggetti, sui nomi, sul muoversi stesso della realtà, sul ritmo e il respiro del tempo, come ad estrarne l’anima, la vibrazione, la traccia dello sforzo, del movimento umano, della passione e del dolore, del voler essere e di ciò che lo ostacola. La speranza e il desiderio, la resistenza e l’oppressione, l’aggressione e la difesa, tutto viene espresso attraverso la sofferta densità della parola, con un lessico tocca i livelli più diversi: forme dialettali più vicine all’espressione della vita materiale, alla realtà contadina o al lavoro artigianale, forme arcaiche o preziose, che fanno balenare echi di tempi lontani, di remota storicità, lingue straniere che rivelano strati nascosti dell’esperienza, rapporti, interferenze, intrecci e conflitti tra mondi. Nomi comuni e nomi propri si susseguono ritmicamente in questa prosa, che costeggia la poesia, come a catturare e a rapprendere in sé lo spazio e il tempo, lo scorrere della vita, l’aspetto degli oggetti, i gesti degli esseri umani e di tutto ciò che è animato, le immagini dell’arte: scrittura che si muove e racconta, ma in un raccontare che è nello stesso tempo un vedere e un interrogare, un voler catturare la densità dei luoghi e dell’esistenza che scorre in essi, la persistenza del passato e la sua evanescenza, il testardo agire degli esseri umani, il suo fissarsi in posture, in proiezioni di sé, nel loro insistente e scenico manifestare se stessi, nel loro mostrarsi che è anche un enigmatico nascondersi.
Se di racconto si tratta, è un raccontare che, per la sua stessa intensità, per il residuo di partecipazione e di dolore che lo sostiene, non può avere nulla a che fare con quella generica e piatta disposizione al romanzo che domina sulla stanca scena letteraria contemporanea: tutti i romanzi di Consolo, dal romanzo storico che nel 1976 lo ha rivelato, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, all’ultimo disperato “Lo spasimo di Palermo” (1998), sono in fondo dei non romanzi, testi che si dispongono su più piani diversi, che mirano a circoscrivere i volti di un reale che i convenzionali modelli romanzeschi non sono in grado di afferrare. Ai romanzi si sono affiancati molti suoi saggi, raccolti in volumi che si presentano percorsi nella Sicilia contemporanea, nei suoi splendori e nelle sue piaghe, nel mito, nella storia, nella geografia, nell’arte, racconti di luoghi, di persone, di incontri.
Molto vicino Consolo è stato a Leonardo Sciascia, con cui ha condiviso una tensione illuministica e moralistica, un impegno di denuncia e di intervento sulle micidiali storture della Sicilia e dell’Italia contemporanea. L’illuminismo di Sciascia è però sempre come segnato da un senso di distacco e di distanziamento, da una diffidenza della ragione che può risolversi in ironia, in assorto e problematico indagare, in perplesso giudicare, con punti di fuga verso una sospesa ambiguità (tra Pirandello e Borges). Lo spirito critico e moralistico di Sciascia è in lotta contro una Sicilia sofistica, sembra come volersi districare tra le sue trame ingannevoli, contro quella che potremmo considerare la sostanza retorica dell’orizzonte politico-mafioso, sfidandola con le armi di una lucida razionalità combinatoria.
L’originalità di Consolo, invece, anche rispetto ad altri vicini scrittori siciliani (prima di tutti Bufalino, immerso in una sua cangiante totalità letteraria), sta nel suo mirare, grazie al suo espressionismo, al cuore profondo della Sicilia, grande corpo brulicante di vita, esuberante, malsano, appassionato, lacerato. Cerca di comprenderne il senso afferrandone ogni squarcio che ne riveli la densità, la fascinazione e la tremenda rovinosa disgregazione del tutto, di un insieme di corpi che vi annaspano, vi soffrono, vi si espandono, vi si mostrano. Di contro alle rovine cerca e ritrova tante presenze vitali, appartate figure umane che ostinatamente resistono, che continuano, nonostante tutto, a cercare una luce.
Tutta l’opera di Consolo è come un lungo viaggio: viaggio tra luoghi amati, in cui riconosce le proprie ragioni di vita, ma che vive soprattutto da lontano, ritrovandoli e perpetuamente perdendoli; scrittore di una geografia che risale fino agli spazi mitici dell’Odissea (come in quell’atipico libro di viaggio che è “L’olivo e l’olivastro”, 1994), trovandosi di fronte al tradimento attuale di ogni memoria, alla violenza mafiosa e al degrado ambientale. Insieme ai suoi protagonisti l’autore si domanda spesso, «che cosa è successo», all’ambiente, allo spazio, alla vita, a chi legge e allo stesso io che scrive: interrogazione accorata, tramata sul percorso compiuto, con le cose e le persone viste nella condizione in cui sono “divenute”.
Consolo è in effetti uno di quegli scrittori di cui oggi abbiamo più bisogno, quelli che sanno percepire la vita dei luoghi, che ne sentono il respiro, il valore minacciato che spesso ancora custodiscono, e così ci invitano a pensare a condizioni diverse da quelle in cui sono stati ridotti: scrittore “ecologico” non per programma ideologico, ma per autentico spirito democratico, passione di cultura, passione di letteratura, passione per il mondo e per la vita. Occorrerebbe ascoltare di più la sua voce intesa e sdegnata, che, da quella specola siciliana, guardata da lontano e da vicino, ci dice l’urgenza di capire davvero dove stiamo andando.