Editoriale
Lui no: contro il vuoto di Silvio Berlusconi al Quirinale
Non può diventare Presidente della repubblica chi ha lanciato il populismo per distruggere le istituzioni. Significherebbe riportare indietro il paese e lasciare la politica smarrita
Lui no. Arrivati a due settimane dal voto per il presidente della Repubblica, conviene abbandonare i proclami dello stesso colore della nebbia che ha avvolto la Capitale nella notte di Capodanno e di uguale consistenza, i profili ecumenici (serve un europeista al Quirinale, certo, e di alto profilo, ci mancherebbe) e il mantra offensivo della donna al Colle senza volto e senza biografia. E se poi eleggono Maria Elisabetta Alberti Casellati?
La prendiamo dritta: Silvio Berlusconi al Quirinale, no. Lo diciamo con fermezza, ma anche con una certa leggerezza. Con una qualche indignazione, ma anche con la stanchezza di assistere, nell’Italia del 2022, al revival di un mondo diviso in due, torna Sex and the city e per il pubblico invecchiato replicano i berlusconiani e gli anti-berlusconiani, quando in fondo era facile sentirsi dalla parte del Bene contro il Male, e viceversa. Basta vedere la voluttà con cui le diverse fazioni si sono gettate nella mischia. Non vedevano l’ora. È il frutto più avvelenato dell’Auto-Candidato di Arcore: riportare l’Italia all’indietro. Dopo di lui, infatti, è rispuntato Massimo D’Alema.
Ci siamo chiesti, con Lirio Abbate, come parlare di Berlusconi sull’Espresso. E ci siamo risposti che il modo migliore per farlo era restituire la parola a chi dell’uomo di Arcore aveva visto in largo anticipo tutto, ma proprio tutto, ben prima del suo ingresso in politica, della fondazione di Forza Italia, degli anni di governo, dei guai giudiziari. Non per fare un’operazione di nostalgia, ma di verità: Berlusconi allo stato puro. Prima di ogni altra stratificazione narrativa, c’è il genio di un giornalista che lo setaccia, che ne coglie la natura, l’anima.
Claudio Rinaldi, direttore dell’Espresso dal 1991 al 1999, aveva cominciato a confrontarsi a distanza con Berlusconi negli anni Ottanta e lo aveva visto da vicino quando nel 1990 l’uomo di Arcore era diventato il proprietario della Mondadori, oltre che dei tre canali televisivi Fininvest (oggi Mediaset). Era la guerra di Segrate, cominciata nel 1989 e poi terminata con la spartizione dell’Impero editoriale (la casa editrice e i periodici della Mondadori a Berlusconi, il gruppo Espresso alla Cir di Carlo De Benedetti), più un processo penale concluso con le condanne per corruzione dell’avvocato berlusconiano Cesare Previti e del giudice Vittorio Metta e con il maxi-risarcimento civile della Fininvest alla Cir (494 milioni di euro in Cassazione nel 2013) e uno scontro politico senza fine.
Claudio aveva allora soltanto 44 anni, aveva già guidato L’Europeo, dirigeva Panorama da cinque anni. L’incontro con Berlusconi durò pochi minuti, lo ha raccontato Giampaolo Pansa in “L’intrigo”. «Lei ha deciso di andarsene?», chiese l’imprenditore delle tv. «Non sono io che decido di andarmene. È la Mondadori di oggi che mi impedisce di rimanere qui e di continuare il mio lavoro», replicò Rinaldi. A lasciare il nuovo gruppone editoriale berlusconiano furono in quattro: oltre a Rinaldi, Pansa con il Bestiario, Altan e Michele Serra che lasciò la sua rubrica su Epoca con queste parole: «Saluto Berlusconi del quale so, tra le altre cose, che considera quasi stupefacente il fatto che qualcuno non la pensi come lui. Si abitui all’ineluttabile. Non si può comprare tutto».
Rinaldi con Pansa nel 1991 arrivò a dirigere L’Espresso, nella storica sede di via Po. Nel 1993 fu il primo a capire che il Cavaliere sarebbe entrato in politica e lo scrisse sul nostro settimanale. Per questo ripubblichiamo sul numero in edicola e online alcuni editoriali e articoli scritti sull’Espresso tra l’estate del 1993 e il 1994, quando il Cavaliere architettava la sua discesa in politica, durante la campagna elettorale d’esordio di Forza Italia, all’alba del suo sconclusionato primo governo. Del berlusconismo allo stato nascente Rinaldi coglie ogni aspetto, con la sua scrittura limpida. Era stato attaccato, era stato considerato ossessivo perfino dagli amici, leggerete qui una disputa tra lui e Umberto Eco. Una battaglia combattuta in solitudine, con intelligenza e lucidità implacabile, che Claudio non cesserà mai, senza mollare, fino alla fine.
Parliamo di Berlusconi, il “Pupazzetto”, come lo chiamava Rinaldi nel suo romanzo “Ultimo volo della sera” (Feltrinelli), uscito nel 2015 dopo la morte arrivata nel 2007, ma parliamo anche del giornalismo, di un’idea del giornalismo, del giornalismo dell’Espresso. Prima del Caimano di Nanni Moretti e di Franco Cordero, prima delle dieci domande di Giuseppe D’Avanzo. E prima, anche, dell’anti-berlusconismo trasformato in marketing, tournée teatrale, paccottiglia editoriale, la stanca ripetizione infinita di luoghi comuni, di rivelazioni che non rivelano ma confermano, di carte inesplorate che esplorano il nulla. Prima che il berlusconismo diventasse materia giudiziaria, e dunque inerte, c’è il giornalismo. C’è la scrittura di un intellettuale che come Pier Paolo Pasolini collega i fili, coordina i fatti anche lontani, mette insieme «i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero». E lo fa senza aspettare le inchieste delle procure, le intercettazioni, le dichiarazioni dei pentiti che arriveranno dopo. C’è un giornalista che si interroga sul suo Paese, sull’Italia che si stava spezzando e che non si è più ricomposta.
Oggi c’è l’angoscia di rivedere, insieme al revival dei tifosi del berlusconismo, il ritorno dell’anti-berlusconismo di maniera. E c’è il pericolo di contribuire, anche involontariamente, a comporre il monumento in vita del Cavaliere. Ma non c’è una vicenda berlusconiana separata dalla storia italiana. Non è stato un alieno il Cavaliere trent’anni fa, così come non erano gli Hyksos, un popolo invasore venuto da fuori, i marciatori su Roma in camicia nera di cento anni fa.
Il nostro sparo di Sarajevo è stato un tiro di sciacquone che forse non è mai avvenuto, quello con cui l’ingegner Mario Chiesa provò a far sparire i trenta milioni di lire della tangente appena intascata sotto gli occhi dei carabinieri del pm Antonio Di Pietro. Era il 17 febbraio 1992, l’inizio dell’operazione Mani Pulite, dieci giorni dopo la firma del trattato di Maastricht, che forse ha contato qualcosa di più. Comincia in quel momento la storia degli ultimi trent’anni, la parabola che ci porta all’elezione presidenziale 2022. Un sistema politico in disfacimento, il venir meno del doppio patto che aveva retto la Repubblica dopo il 1946: quello costituzionale interno, con l’omicidio di Aldo Moro (1978), e quello esterno, il vincolo della guerra fredda e dell’ordine di Jalta, crollato con il muro di Berlino (1989).
Quel doppio patto non è mai stato riscritto. C’è stato un tentativo molto ambizioso, alla metà degli anni Novanta, con l’Ulivo di Romano Prodi, di rifondare la politica sulla base del bipolarismo e della democrazia del maggioritario e del progetto di unità dell’Europa non solo monetaria, ma è stato sconfitto, prima ancora che da Berlusconi dall’ostilità di Massimo D’Alema: la malattia auto-distruttiva del centro-sinistra comincia prima dell’avvento di Matteo Renzi. I protagonisti della vita pubblica, i politici, ma anche gli imprenditori, i grand commis, i sindacalisti, gli editori, gli intellettuali e i giornalisti, i banchieri e la Chiesa, hanno preferito agitarsi nel vuoto perché nel vuoto di progetto, di ambizione, di orizzonte, prosperano le piccole prospettive di una classe dirigente modesta.
Per questo dire oggi no a Berlusconi al Quirinale significa respingere il personaggio che più di tutti il vuoto l’ha impersonificato, il deserto in cui sono cresciuti i Salvini, le Meloni, ma anche i Di Maio, tutti i populismi, i particolarismi, il culto degli interessi senza conflitto, il disprezzo per il servizio pubblico. Vorrebbe diventare capo dello Stato chi ha sempre predicato che lo Stato è un ladro da cui proteggere le tasche degli italiani. Ma dire di no a Berlusconi non basta, significa anche togliersi di dosso ogni alibi in cui siamo precipitati tutti, chiudere il trentennio senza politica in cui siamo tutti stati coinvolti, in cui nessuno può tirarsi fuori.
Che a riscrivere il doppio patto sia stato chiamato al governo, e domani potrebbe esserlo al Quirinale, un ex banchiere centrale, uomo di finanza e mercati, di circuiti per nulla empatici e poco democratici, è uno dei paradossi cui la storia nazionale ci ha abituati. A ricostruire il Paese dopo la devastazione fascista fu un deputato dell’Impero asburgico, il trentino Alcide De Gasperi, che non si è mai atteggiato a salvatore della Patria. Così sbaglierebbe a farlo Mario Draghi. Non c’è l’uomo della Provvidenza, l’uomo solo di cui ha parlato Rino Formica. C’è il crocevia storico in cui la vicenda italiana torna a incrociare quella europea e internazionale. C’è l’Europa di cui Draghi è uno dei leader, il rafforzamento del progetto europeo passa anche dalla sua leadership. Forse per questo il partito degli oltranzisti atlantici e il partito Cinese presenti in casa nostra sono uniti nel contrastare la sua ascesa al Quirinale.
Draghi, uomo di assoluta fedeltà occidentale, si trova nella stessa dannata contraddizione in cui si trovarono altri leader prima di lui: De Gasperi, Moro, Bettino Craxi. Se vuoi un’Italia forte in un’Europa forte devi mettere nel conto l’ostilità di chi vuole un paese e un continente debole e scalabile, espressione geografica ma non politica. Sul piano interno, la scommessa di una politica e di una società più forte. Le istituzioni non si rafforzano senza un dialogo con la società, ma la società non è la somma dei singoli, il formicaio di interessi organizzati uno contro l’altro, secondo la visione neo-liberista che Berlusconi ha (malamente) importato in Italia: è la possibilità della condivisione di un progetto comune.
Per quello che ci riguarda è la coltivazione del giornalismo come bene comune, autonomia e indipendenza, racconto della realtà, soprattutto nei suoi angoli più sconosciuti, in quei territori o in quelle persone che non hanno voce per farsi sentire. Il giornalismo battaglia etica, civile, ma anche racconto disincantato della commedia umana che è la politica e la vita. Come ce l’ha insegnato Claudio Rinaldi. È stato il direttore più bravo della sua generazione, in quell’Italia che si spezzava, tuttora molto invidiato. L’ho incontrato nei mesi finali della sua direzione quando cominciavo a frequentare la redazione di via Po. Era già stato tradito dalla sclerosi multipla, era ormai invisibile per molti, prima di uscire si affacciava per salutare il condirettore Giampaolo Pansa. E non ho mai dimenticato quel giornalista, con le sue ossessioni, quell’uomo che scivolava via verso la notte.