La lobby dei produttori di materiali bellici spinge la crescita esponenziale degli investimenti tecnologici per il controllo dei confini europei: un mercato che vale quasi 70 miliardi di dollari l’anno. E alimenta un circolo vizioso di soprusi e violenza

Lunedì 17 ottobre alle 21.20 Presadiretta su Rai Tre con l’inchiesta “Armi di controllo di massa”, realizzata da Giulia Bosetti e Eleonora Tundo.

 

Una crescita annua tra il 7 e il 9 per cento, un fatturato che oscilla tra i 65 e i 68 miliardi di euro all’anno. Sono i numeri di un settore che non conosce crisi: il gigantesco complesso industriale del controllo delle frontiere. Una gamma sconfinata di tecnologie impiegate per difendere i confini dell’Occidente, un esercito di droni, sensori, robot intelligenti, sistemi di videosorveglianza e intelligenza artificiale, prodotti da quegli stessi colossi su cui oggi più che mai puntano gli occhi e investono soldi i governi di tutto il mondo: le società produttrici di armi.

 

Proteggere le frontiere è diventato il grande mantra degli Stati occidentali e in particolare dell’Europa, dove la crescita di mercato doppia quella degli altri Paesi: 15 per cento l’anno. Più la guerra minaccia il cuore del vecchio continente, più aumentano i rifugiati e i migranti e più si attrezza l’industria militare: «Le aziende fanno profitti grazie ai muri fisici e virtuali che sono diventati parte integrante delle politiche dell’Unione europea a causa delle pressioni delle aziende, che hanno trasformato la migrazione da un problema umanitario a un problema di sicurezza». Mark Akkerman, ricercatore di Stop Wapenhandel, organizzazione indipendente olandese che monitora il business degli armamenti, ha indagato il ruolo dell’industria nella militarizzazione delle politiche di frontiera.

 

Nel suo piccolo ufficio di Amsterdam, circondato di report e dossier, parla senza mezzi termini: «I produttori di armi hanno influenzato il dibattito pubblico facendo passare l’idea che i migranti siano una minaccia, per poi proporre come soluzione le loro tecnologie e i loro servizi. L’Europa e gli Stati membri sono molto sensibili alle richieste della lobby delle armi». A giudicare dalle somme che l’Ue ha deciso di investirci, Akkerman non sbaglia. Nel report “A quale costo”, le organizzazioni Statewatch e Transnational Institute analizzano le spese dell’Unione europea: tra il 2021 e il 2027 gli investimenti per i settori sicurezza e difesa ammontano a 43,9 miliardi di euro, un aumento di budget del 123 per cento. Il Fondo per la gestione del controllo delle frontiere cresce del 131 per cento, passando a 6,2 miliardi di euro e i finanziamenti di Europol e di Frontex, l’agenzia per la sicurezza dei confini, sfiorano i 10 miliardi di euro: un aumento del 129 per cento.

Grazie a una lunga serie di richieste di accesso agli atti, l’osservatorio Corporate Europe di Bruxelles ha scoperto come l’industria privata e i suoi gruppi di pressione hanno influenzato le decisioni politiche dell’Unione europea: «Il budget di Frontex è cresciuto a dismisura e l’agenzia ha ottenuto maggiori poteri nella gestione degli appalti per le frontiere, senza un adeguato sistema di trasparenza e controllo dell’attività di lobby», spiega la ricercatrice Margarida Silva.

 

In tre anni, Frontex è stata in contatto con 108 società private, con cui ha organizzato diciassette meeting. Hanno partecipato le principali compagnie di armi in Europa: la francese Airbus, le spagnole Indra e Gmv, l’italiana Leonardo. «Le aziende hanno cercato di convincere Frontex e gli Stati membri a spendere più soldi in tecnologie di sorveglianza e controllo delle frontiere», conclude Silva. E ci sono riuscite. Per Hannah Neumann, eurodeputata tedesca dei Verdi relatrice della Risoluzione sull’export di armi del Parlamento europeo del 2020, è un circolo vizioso: «Le aziende vendono armamenti a Paesi terzi che li utilizzano per fare la guerra, costringendo le persone a fuggire dalla loro patria. Poi le stesse società vendono ai governi europei tecnologie e attrezzature per impedire a quelle persone di entrare in Europa». L’industria militare vanta un accesso privilegiato alla Commissione e ai governi europei, che in alcuni casi ne sono anche azionisti. Vedi Leonardo, partecipata al 30 per cento dal ministero dell’Economia italiano, o Thales, dello Stato francese per il 25 per cento. «Recentemente la Commissione europea ha creato lo Strumento per la stabilità e la pace e c’è stata una fortissima pressione dell’industria delle armi per includere nei suoi finanziamenti la fornitura di attrezzature per la sicurezza delle frontiere come telecamere nascoste o recinzioni di filo spinato», rivela Neumann.

Fortezza Europa
La vergogna di Samos, tra migranti imprigionati o respinti a forza verso la Turchia di Erdogan
6/6/2022

La partita cruciale si gioca sui confini esterni dell’Ue. Dal 2015 ad oggi, la Croazia ha ricevuto dall’Ue 163 milioni di euro per acquistare dispositivi di imaging termico, telecamere a infrarossi, apparecchiature che rilevano i battiti cardiaci, droni a lungo e medio raggio che trasmettono dati in tempo reale, fuoristrada con termocamere mobili su rimorchio ed elicotteri tra i più avanzati al mondo: due Eurocopter francesi prodotti da Airbus e due AW139 dell’italiana Leonardo, con tanto di termocamere che possono riprendere fino a 10 chilometri di distanza. Tecnologie che hanno portato a un’escalation di violenza nei respingimenti illegali della polizia croata. Lo attesta un rapporto di Border violence monitoring network del 2021. E lo vivono sulla propria pelle i rifugiati afghani che ogni giorno tentano il “game” sulla rotta balcanica, giocando a nascondino con la polizia di frontiera croata per poi essere respinti. Picchiati, derubati, denudati. A Velika Kladusa, piccolo comune della Bosnia nord-orientale, ne ho incontrati a decine. Con i piedi fasciati, le dita spezzate, le schiene sfregiate. Famiglie con bambini, ragazzini strappati ai genitori. Come Hadi e Nabi, 17 e 14 anni. Spuntati dal bosco con lo zaino in spalla e la paura negli occhi. «La polizia croata ci ha catturato grazie alle telecamere nascoste sugli alberi. Ma dobbiamo riprovarci, per arrivare ad Amburgo dalla mamma e chiedere la protezione umanitaria». Il difensore civico dell’Ue ha avviato un’indagine ufficiale sulle responsabilità della Commissione nell’utilizzo di fondi pubblici per operazioni della polizia di frontiera che violano i diritti dei rifugiati: «Quando i poliziotti mi hanno arrestato, indossavano visori a infrarossi, avevano droni e geolocalizzatori. A qualcuno hanno rotto le braccia, a qualcun altro le gambe. Questo ci sta facendo l’Europa», si sfoga un giovane afghano.

 

Dai boschi della Croazia alle isolette greche nel Mar Egeo, la parola «accoglienza» fa sempre rima con «sorveglianza». Isola di Samos, 1.200 metri dalle coste della Turchia. Spiagge candide, acque cristalline e un campo rifugiati videosorvegliato h24, con sistema di sicurezza a raggi X e autenticazione in due fasi: tesserino di riconoscimento e impronte digitali. Doppia recinzione militare in stile Nato, una società privata incaricata della sicurezza, Samos è il primo dei cinque campi profughi altamente tecnologici che la Grecia sta allestendo sulle isole del Dodecaneso con i soldi dell’Unione europea. Tutto viene monitorato dal centro di massima sicurezza di Atene grazie a Centaur, un sistema di sorveglianza elettronica futuristico dotato di algoritmi di analisi del movimento: «Stila anche il report delle emergenze.

 

Comunichiamo al campo quello che sta succedendo e facciamo intervenire la polizia o la Guardia Costiera», racconta Manos Logothestis, Segretario generale per l’accoglienza dei richiedenti asilo, di fronte a decine di telecamere puntate sui rifugiati: «Avremo droni e visori a lungo raggio e tutti gli operatori possono mandarci in tempo reale immagini girate con i loro smartphone». La Commissione europea ha definito il campo di Samos una pietra miliare nella gestione della migrazione, ma in una lettera aperta i rifugiati siriani che ci vivono lo paragonano alla prigione di Guantanamo: «Stiamo impazzendo. Ci sono atti di autolesionismo, persone che si tagliano con il coltello e sbattono la testa contro il muro». Gabriel Feldman dell’Png Still I Rise, è seriamente preoccupato per le loro condizioni psicologiche: «Ci sono stati raid notturni della polizia, molti abitanti del campo sono sotto shock e tutti vivono nel terrore». Europe Must Act e il Samos Advocacy Collective, una rete di attivisti e organizzazioni che lavorano sull’isola, hanno denunciato le detenzioni illegali dei rifugiati e la violazione dei diritti umani fondamentali e hanno scritto una lettera alla Commissione europea. «La Commissione sta monitorando da vicino la situazione e continuerà ad affrontare la questione con le autorità greche competenti», è stata la risposta. L’Europa continua a sorvegliare.