Secondo gli ultimi studi manca all’appello il 40 per cento di operai da assumere e gli italiani non bastano. Ma con flussi tagliati e permessi con il contagocce ora sono le aziende a smascherare il flop della Bossi-Fini

Mancano carpentieri, elettricisti, care giver. Mancano saldatori, infermieri, ma anche professionisti. Stando all’ultima indagine Excelsior Unioncamere, gli imprenditori puntano ad assumere entro ottobre 1,3 milioni di persone, ma sanno già che faticheranno a trovare il 41,6 per cento del personale ricercato. Pesa la mancanza di 87mila commessi e camerieri, 10mila muratori, 28mila fattorini, 26mila addetti alle pulizie.

 

Una situazione destinata a peggiorare perché nei prossimi cinque anni andranno in pensione 2,8 milioni di occupati e nello stesso periodo vi sarà la necessità di assumere 4,5 milioni di lavoratori. Ma il bacino di italiani disponibili al lavoro si restringe di circa 400mila unità l’anno, soprattutto per colpa del declino demografico, ma anche per via degli errori commessi nella formazione dei giovani e per l’assenza di politiche attive capaci di riattivare i cinquantenni disoccupati o sfiduciati. «C’è un gigantesco problema quantitativo e qualitativo di ricerca del personale. Non solo i giovani sono pochi, ma non sono adeguatamente preparati al mondo del lavoro», spiega Fabio Costantini, amministratore delegato della società di risorse umane Randstad HR, la divisione che si occupa di formazione e ricollocazione.

 

Secondo gli imprenditori la migrazione è la migliore delle soluzioni: «Per rispondere a quella che è una vera emergenza abbiamo creato il progetto Without boards per garantire percorsi di ingresso e reclutamento coinvolgendo associazioni e Ong che operano nei Paesi esteri, così da trovare fuori dai confini nazionali il personale necessario. Entriamo anche in contatto con le Caritas territoriali, con i centri di accoglienza, parliamo con i migranti per capire se hanno esperienze professionali o titoli di studio, offriamo loro percorsi di formazione e inserimento lavorativo. È tutt’altro che semplice, soprattutto perché bisogna convivere con due elefanti nella stanza, ovvero la legge Bossi-Fini e il decreto sicurezza», che era stato fortemente voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e, nei fatti, ha abolito i permessi di soggiorno per motivi umanitari, bloccando uno dei maggiori canali di ingresso di personale per le imprese.

A conferma che la migrazione è la soluzione più indicata per affrontare il mismatch, ovvero il mancato incontro tra domanda e offerta, l’Istat dice che nel primo trimestre 2022 il tasso di occupazione degli stranieri è in crescita dell’1,5 per cento, mentre quello dei lavoratori italiani è fermo allo 0,8.Attrarre manodopera straniera però è tutt’altro che semplice. Clemente Elia è responsabile del dipartimento Immigrazione della Cgil Lombardia: «Mettiamo che una famiglia quest’anno intenda fare un contratto a un collaboratore domestico straniero: non può farlo. Perché il lavoro domestico non rientra nell’elenco del decreto flussi e perché ormai è scaduto il tempo per presentare domanda». Nel racconto di Elia c’è tutta la stanchezza di chi ogni giorno media tra i migranti (molti irregolari e con permesso di soggiorno scaduto), imprenditori e famiglie che vorrebbero regolarizzare situazioni opache e le questure dei territori che devono rilasciare i permessi. In fila, fuori dal suo ufficio, fra gli altri c’è il gestore di un rifugio della Valtellina che da giugno attende il nulla osta per un migrante del centro Africa. Sarebbe stato un valido aiuto in montagna, peccato che il via libera non sia mai arrivato e nel frattempo la stagione estiva sia terminata.

 

Ma facciamo un passo indietro per capire qual è la trafila utile a ottenere un permesso di lavoro. Il flusso è regolato dalla legge Bossi-Fini del 2002 che prevede la presentazione di un documento triennale programmatico per stabilire quanti migranti servono al mercato del lavoro: nella pratica, dal 2006 nessun governo si è più preoccupato di questa programmazione e, in sua assenza, è possibile accogliere una quota di lavoratori migranti non superiore a quella dell’anno precedente. In sostanza, si è passati dagli oltre 180mila permessi del 2010 ai 30mila del 2020. Troppo poco rispetto alle richieste del mercato che Costantini di Randstad stima in 350mila unità l’anno. Solo a dicembre del 2020 è stato eliminato il vincolo della Bossi-Fini e il governo Draghi ha potuto allargare un poco le maglie del decreto flussi: 70mila persone.

Briciole, perché sono un quinto della richiesta delle imprese. Ma non è finita qui. «Il decreto flussi stabilisce quante persone possono entrare, in quali settori, se per lavoro stagionale, autonomo o subordinato e su quali territori. Se ad esempio un imprenditore bresciano volesse assumere un autotrasportatore, ma per quell’area il decreto flussi stabilisce che possono entrare solo dieci braccianti, allora non c’è alcuna possibilità di assumere personale straniero. Di più: per assumere un dipendente bisogna anche essere veloci e fortunati, visto che si utilizza il sistema del click day. Chi è più veloce a collegarsi al portale governativo “vince” il permesso di soggiorno».

 

Ma come avviene l’incontro fra domanda e offerta di lavoro fra Italia ed estero? In base alla legge Bossi-Fini il datore dovrebbe selezionare il dipendente straniero basandosi sul curriculum, dal momento che risiede all’estero. Ovviamente le cose vanno diversamente: «Il più delle volte l’imprenditore o la famiglia interessata all’assunzione si affida a una rete familiare di migranti già risiedenti in Italia, la quale ha un parente o un conoscente interessato a quell’impiego», spiega Elia della Cgil, che continua: «Funziona così in tutti i settori, dall’edilizia, alla manifattura, dal lavoro domestico alla logistica, dalla ristorazione collettiva alle pulizie e si crea una forma di caporalato internazionale drammatica sia per i datori di lavoro sia per chi arriva qui, perché su tutto prevale questa rete di intermediari, che spesso crea forme di schiavismo a cui sottostanno i nuovi arrivati».

 

Visto che la percentuale di permessi di soggiorno lavorativi è passata dal 60 al 10 per cento negli ultimi dieci anni a causa delle maglie sempre più strette del decreto flussi, sempre più migranti entrano in Italia sfruttando i visti per ricongiungimento familiare (aumentati dal 30 al 60 per cento in 10 anni) e gonfiando le fila del caporalato. Farsi invitare da un parente è quindi una delle modalità per ovviare alla carenza di permessi di lavoro, l’altra è sperare di essere intercettato da un sano sistema di collocamento, come quello avviato da Randstad con i centri di accoglienza e le organizzazioni che si occupano di migrazione. Ma la stragrande maggioranza di chi arriva in Italia segue una strada meno sicura e finisce per galleggiare fra quel 12 per cento di lavoro nero, grigio e sommerso inscalfibile in Italia.

 

È la Guardia di finanza del Comando provinciale di Milano che, dopo aver scoperchiato il fenomeno del caporalato internazionale prima con l’inchiesta sui rider, poi con altri due filoni di indagine che interessano imprese lombarde della logistica, a spiegare come sempre più spesso la disperazione dei migranti li rende ricattabili da reti di caporali che li assoldano attraverso società e cooperative. I migranti, che in minima parte arrivano in Italia via mare, mentre nel 65 per cento dei casi arrivano con un visto turistico e sperano per l’appunto in un lavoro, vengono assunti con contratti stagionali o di collaborazione occasionale come rider, fattorini, braccianti, bassa manovalanza impiegata in edilizia, agricoltura e in generale nell’industria e pagati pochi euro l’ora.

Nella sola inchiesta sui rider sfruttati da Uber Eats la Guardia di finanza ha scoperto 750 migranti prevenienti per lo più da Pakistan, Bangladesh e anche Centro Africa costretti a lavorare al soldo di società che trattenevano per sé parte degli stipendi e lasciavano ai rider non più di tre euro a consegna. Se al Sud il fenomeno è sfacciatamente alla luce del sole con i migranti accolti nelle baraccopoli e occupati nei campi per un pugno di soldi, «al Nord il fenomeno esiste, è massiccio, ma meno evidente. Qui a Cuneo vengono impiegati nella raccolta della frutta, nella vendemmia, ma anche nell’edilizia, nelle imprese manifatturiere, nei ristoranti, nelle aziende di pulizia. Non hanno un ruolo fisso, ogni due o tre giorni l’azienda per cui lavorano li indirizza altrove», racconta Enrico Manassero, responsabile della Caritas di Cuneo, che continua: «Sono ragazzi con permessi di soggiorno temporanei alle dipendenze di cooperative e organizzazioni che offrono loro vitto, alloggio e un contratto regolare, ma solo di facciata perché in busta paga risultano pochi giorni di lavoro anche se nella realtà hanno faticato tutto il mese. Questo non permette loro di svincolarsi dal caporale».

 

Terra Buona e Presidio sono i nomi dei progetti avviati da Caritas e prefetture per garantire contratti regolari e forme di accoglienza ai migranti: «Cerchiamo di convincerli a svolgere corsi di specializzazione, per esempio nella potatura dei vigneti o da manutentori e saldatori, che sono molto ricercati dalle imprese, ma i migranti hanno la necessità di guadagnare in fretta il denaro da inviare al Paese d’origine e spesso preferiscono la soluzione più semplice, ovvero restare al soldo dei caporali», racconta Manassero della Caritas. In Veneto e in Lombardia sono le stesse imprese di Confartigianato e Confindustria a chiedere sia una riforma della legge Bossi-Fini per avere permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, sia un giro di vite al caporalato, che favorisce la concorrenza sleale e fa scivolare verso il basso la qualità del lavoro. Richieste fatte pervenire alla leader in pectore Giorgia Meloni, che ha promesso di voler ascoltare gli imprenditori per ridurre al minimo il fardello burocratico dello Stato. Chissà, dopo la Bossi-Fini, potrebbe essere giunto il momento di una nuova legge sulla migrazione, magari targata Meloni-Salvini, per allentare i vincoli migratori e accontentare le richieste degli imprenditori italiani.