Francia, Germania, Europa del nord. Sono le mete più ambite da migranti e rifugiati che arrivano in Italia. E poi per la maggior parte vanno via, scontrandosi con la difficoltà di integrarsi o di potersi mantenere

«Andrò a vivere in Olanda o in Svezia», spiega Maryam mentre beve un caffè. Va di fretta, resta appoggiata senza sedersi al tavolo del centro d’accoglienza di Santa Bakhita gestito da Caritas, che ospita cinquanta donne richiedenti o titolari di protezione internazionale. Alle porte di Roma, verso Ostia. Da Damasco, in Siria, Maryam è scappata in Libano con la famiglia. Poi in Italia, dove ha ottenuto lo status di rifugiata, è arrivata da sola. «Non appena finirò l’università andrò via, come hanno fatto tante persone che conosco. Un amico siriano che è arrivato con me, da Fano nelle Marche si è trasferito in Belgio: in due anni ha trovato un’occupazione, casa e sta per sposarsi. Io a Roma studio e lavoro ma non riesco neanche a pagare un affitto. L’Italia non offre futuro ai suoi giovani, figurati come potrebbe andare per me che sono straniera».

 

Come racconta Anna Di Claudio, operatrice sociale del centro di Santa Bakhita: «Siamo abituati, tante vanno via. Troviamo le stanze vuote all’improvviso o ci informano all’ultimo, quando la partenza è già organizzata. Chi arriva in Italia sa che integrarsi sarà difficile, che i tempi per i documenti sono lunghi, così tenta subito di costruirsi un futuro altrove: le mete più frequenti sono Francia, Belgio, Lussemburgo. O c’è chi cerca di raggiungere il nord Europa. Ma dipende dalla nazionalità, dalla lingua e dalla rete di supporto che hanno alle spalle. Mi sento spesso dire dalle ospiti che gli italiani sono un popolo accogliente. Si trovano bene con le persone ma mancano i riconoscimenti sociali: non riescono ad affittare una casa, non trovano lavoro. Alcuni scappano dopo poche ore dall’arrivo».

 

Così avrebbe voluto fare anche Soumaila Diawara, scrittore. Vive in Italia dalla fine del 2014 ma il suo piano era di raggiungere la Svezia. È fuggito dal Mali nel 2012 quando c’è stato il colpo di Stato, il 26 dicembre è sbarcato a Palermo: «Il primo centro di accoglienza era una struttura fatiscente, isolata, in campagna. Non avevo la patente, non parlavo l’italiano, non conoscevo nessuno. Non me ne sono andato perché le procedure per la protezione erano già avviate». Diawara ha avuto pazienza, molta da come racconta: ha lavorato per mesi nei campi 12 ore al giorno per 20 euro, così ha raccolto i soldi per raggiungere Roma. «All’inizio dormivo alla stazione Termini, facevo la doccia alla palestra popolare di San Lorenzo prima di andare alla Sapienza dove ho studiato diritto dell’immigrazione internazionale. Quando sono stato accolto in un centro della Caritas la mia vita è migliorata». Oggi Diawara ha pubblicato tre libri e vive nel quartiere della Capitale Pigneto.

 

Ma tanti non hanno la stessa capacità di resistenza. Come spiega Sergio Serraino, coordinatore dell’ambulatorio di Emergency di Castel Volturno, anche in quella striscia di terra ormai considerata come conquistata dai migranti, sono frequenti le partenze. «Ci sono delle ondate: fino alla pandemia c’era una chiara tendenza, soprattutto tra i nigeriani, a dirigersi verso la Germania. Parte anche chi ha i documenti regolari perché dopo anni non è riuscito a integrarsi. A un certo punto, ad esempio, dall’ambulatorio ci siamo resi conto che la maggior parte delle donne incinte erano sparite. Quando le abbiamo contattate ci hanno spiegato di essersi trasferite in Germania. O scattava la segreteria del cellulare in tedesco». Serraino si occupa di immigrazione da vent’anni, ricorda che quando lavorava in Puglia era routine: «Soprattutto i minori non accompagnati appena sbarcati riprendono il viaggio per oltrepassare il confine a Nord».

 

Come Ahmed. Che voleva arrivare in Francia ma è stato investito lungo l’autostrada A10, mentre si dirigeva verso il confine. «Credevamo avesse vent’anni. Solo dopo, quando è arrivato un familiare afgano per riconoscere il corpo, abbiamo saputo che ne aveva 17», racconta Silvia Donato, child protection senior office di Ventimiglia per Save The Children. «Ma non è il solo. Sono tanti i migranti che cercano di oltrepassare la frontiera per raggiungere Francia, Germania, Belgio o Olanda. Parecchi non hanno una ragione specifica per andare in altri Paesi. Ci provano perché seguono il flusso o il consiglio di un compagno di viaggio secondo cui le condizioni di vita in un altro Stato potrebbero essere migliori. La maggior parte, però, tenta di attraversare il confine per raggiungere familiari, amici o comunità che sono già integrate altrove. Alcuni scappano dal sistema di accoglienza italiano, da strutture in cui non si sono trovati bene, per costruirsi la quotidianità fuori dal nostro Paese».

 

Per Yagoub Kibeida, direttore esecutivo dell’associazione per rifugiati Mosaico, che è partito dal Sudan ed è arrivato in Italia come rifugiato politico, dovrebbe essere un diritto scegliere il Paese in cui chiedere asilo, «invece il sistema di Dublino non lo permette, perché impone l’esame delle richieste nel luogo di sbarco. Anzi succede che le Questure rifiutino anche di rilasciare il titolo di viaggio a chi ha ricevuto la protezione internazionale sussidiaria, impedendogli di muoversi in sicurezza, costringendoli a pagare i trafficanti o a attraversare i confini a piedi. Quelli che vengono respinti vivono nelle città lungo la frontiera, sperando di riuscire a passare prima o poi. Con l’Associazione informiamo i migranti sul funzionamento dell’accoglienza in Europa. Sono tanti quelli che vorrebbero lasciare l’Italia».