Nuove indagini rivelano l’ombra dei servizi d’oltralpe dietro la morte del fondatore dell’Eni. Mentre nel 1980 il Dc9 sarebbe stato abbattuto dai caccia di Parigi. Che non ha mai chiarito niente

Pronto Parigi? Davvero ancora oggi, trascorse decine di anni, non avete nulla da dirci? Perché vanno bene il trattato del Quirinale per migliorare le nostre relazioni, la simpatia tra i presidenti Sergio Mattarella e Emmanuel Macron, l’incontro informale tra lo stesso Macron e Giorgia Meloni, ma resta irrisolto il ruolo che avete svolto in almeno due tragici misteri italiani in cui al solito muro di gomma italiano si somma, incredibilmente ancora più ermetico, un muro di gomma francese.

 

Il pretesto per ricapitolare le omissioni e un ermetismo non proprio amichevole è l’anniversario tondo, il sessantesimo, dell’attentato in cui morì Enrico Mattei. Il presidente dell’Eni precipitò con il suo aereo a Bascapè, vicino a Pavia, il 27 ottobre 1962 mentre era in fase di atterraggio verso l’aeroporto di Linate. Fu archiviato come un incidente, perdurarono per anni i sospetti che così non fosse finché il giudice Vincenzo Calia, non dimostrò che ad abbattere l’aereo fu una piccola carica di esplosivo piazzata nel cruscotto e collegata al congegno di sganciamento del carrello. L’inchiesta di Calia fu chiusa nel 2003 e il magistrato, in pensione, aggiunge ora che nel tempo e proseguendo nelle sue ricerche, «l’ipotesi di una pista francese si è rafforzata». E aggiunge: «Non ho mai avanzato richiesta di rogatorie né chiesto documenti specifici ai francesi perché le indicazioni giunte sulle loro responsabilità erano generiche e non specifiche contro singole persone». Generiche ma univoche e coincidenti al punto da poter reiterare la domanda almeno ai politici dell’Esagono: non avete proprio nulla da dirci circa il comportamento dei vostri servizi segreti?

 

Intanto lo scenario. Enrico Mattei era inviso alle sette sorelle petrolifere anglo-americane per la sua politica verso gli Stati produttori a cui riconosceva il 75 per cento del ricavato dai giacimenti contro il 50 che allora era la percentuale abituale, tanto che a lungo si sospettò che fossero state loro a decidere l’eliminazione. Ma contemporaneamente si era inimicato la Francia per il sostegno e la fornitura d’armi al Fronte di Liberazione Nazionale algerino, tanto da ricevere minacce dall’Oas (Organisation de l’Armée Secrète) che combatteva contro l’indipendenza del Paese africano. È vero che nel marzo del 1962, sei mesi prima della sua morte, erano stati firmati gli accordi di Evian che ponevano fine al conflitto tra la Francia e la sua ex colonia, ma si sospettava che l’italiano trattasse col capo del governo Ben Bella perché l’Eni entrasse nei diritti di sfruttamento di un importante giacimento nel Sahara. «E i francesi», commenta Calia, «hanno sempre ritenuto l’energia del Nord Africa roba loro, Mattei era un elemento di disturbo».

 

Una persona “informata sui fatti” come si direbbe in gergo come l’ammiraglio Fulvio Martini, nome in codice “Ulisse”, ex direttore del Sismi, sempre sentito da Calia, aveva parlato senza indugi di «responsabilità francese, tenuto conto della determinazione con cui agivano nel Continente africano. Considero la sua deposizione significativa e meditata». Nonché ribadita anche in altre occasioni pubbliche. Dello stesso parere era anche il professor Francesco Forte, vicepresidente Eni dal 1971 al 1975, secondo il quale all’interno dell’ente di Stato «era pacifico per tutti che Mattei fosse stato ucciso dai francesi».

 

Già, ma nel caso, chi ordinò, chi eseguì? L’Oas? Lo Sdece (servizi segreti per l’estero e controspionaggio)? Apparati infedeli al presidente de Gaulle che pure era favorevole a una collaborazione franco-italiana e che subì a sua volta un attentato? Di certo chi piazzò la carica esplosiva doveva essere un meccanico che conosceva a perfezione il Morane-Saulnier 760 di fabbricazione francese anche se non si può escludere un esperto di altra nazionalità.

 

Se qui si ferma la cronaca, viene in soccorso, ad aggiungere indizi, la letteratura. Solo di recente l’ex magistrato Vincenzo Calia è venuto in possesso di un libro pubblicato nel 1968 da Fayard in Francia: “Le Monde parallèle ou la Vérité sur l’espionnage”. Una raccolta di storie raccontate dal comandante di vascello Henri Trautmann, ex ufficiale dello Sdece, usate l’anno prima per una serie di documentari e poi riprodotte in volume da tre autori, Yves Ciampi, Pierre Accoce e Jean Dewever. Al capitolo dieci, una folgorazione. Perché è trasparentemente riprodotta, pur con nomi e luoghi mutati, la vicenda Mattei con un dettaglio che poteva essere noto solo a chi al minimo sapeva molto dell’attentato. Il meccanico di fiducia di Mattei, Marino Loretti, era stato rimosso dall’incarico con una falsa accusa (morirà in seguito in un altro incidente aereo dai contorti sospetti) e sostituito. Nella finzione (?) letteraria è tale Laurent, tenete a mente questo nome, che manomette il bimotore per provocare il finto incidente.

 

Per il loro volume di recente pubblicazione (“L’Italia nel petrolio e il sogno infranto dell’indipendenza energetica”, Feltrinelli) Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani hanno rintracciato nel 2020 Pierre Accoce, l’unico dei tre autori dei libro francese ancora vivente, il quale confermò: «Le storie che pubblicammo erano adattamenti televisivi di una serie diretta da Yves Ciampi. Erano vicende di spionaggio al limite della realtà in cui alla fine di ogni episodio appariva, come garante della veridicità narrativa un uomo sempre lasciato nella penombra, il capitano Trautmann soprannominato l’ammiraglio». E assicurò che i fatti raccontati sono autentici. Morì tre mesi dopo.

 

“Laurent” è anche il nome, e la coincidenza è davvero clamorosa, del sabotatore dell’aereo di Mattei nel libro “Lamia” uscito nel 1971 negli Stati Uniti e scritto da Philippe Thyraud de Vosjoli, potente ufficiale e capocentro dello Sdece degli Usa, dimessosi nel 1963 per insanabili contrasti con i suoi superiori, riparato definitivamente in America e verosimilmente assoldato dalla Cia. In questo caso senza troppe perifrasi, l’autore colloca Laurent all’aeroporto di Catania, origine dell’ultimo viaggio del presidente dell’Eni e lo definisce come uomo del “Comitato”, un servizio coperto dello Sdece incaricato dell’eliminazione fisica degli avversari.

 

Come per Mattei, anche per Ustica, 81 vittime dell’aereo dell’Itavia precipitato il 27 giugno 1980, all’inizio si accreditò la tesi dell’incidente, di un “cedimento strutturale”, finché si fece faticosamente strada la verità. Un missile, probabilmente. E siccome nel Tirreno era in corso un’esercitazione Nato si pensò agli americani, salvo poi rivolgere lo sguardo ancora una volta verso Parigi. Intanto per una clamorosa bugia.

 

I giudici italiani chiesero con una rogatoria se nella notte della strage c’era attività di volo nella loro base di Solenzana, in Corsica, a sud di Bastia. I francesi negarono, sostenendo che la base era chiusa. Per loro sfortuna, il colonnello e futuro generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, stretto collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa nel nucleo antiterrorismo e l’uomo che raccolse le confidenze del pentito delle Br Patrizio Peci, si trovava in vacanza con la famiglia in un albergo vicino all’aeroporto militare. Affacciandosi al balcone poteva vedere sulle piste i Mirage francesi e i Phantom della Nato. Di solito i decolli e gli atterraggi cessavano alle 17, ma nella sera di Ustica Bozzo non riuscì a dormire fin oltre la mezzanotte «a causa del frastuono dovuto al viavai dei cacciabombardieri». L’indomani era intenzionato a cambiare hotel quando il proprietario lo invitò a restare sottolineando l’assoluta eccezionalità dell’evento dovuta a suo dire «alle ricerche di un aereo di linea italiano scomparso in mare». L’ufficiale dubitò da subito che si potesse trattare di un semplice soccorso in mare e si chiese se non fosse un attacco top secret. Invano ripeté per molto tempo quanto aveva visto e soprattutto sentito a Solenzana.

 

Finalmente nel 2008 Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio, smentendo quanto sempre dichiarato in precedenza e cioè di non saperne nulla, si risolse a svelare che «i servizi segreti italiani mi informarono, così come fecero con l’allora sottosegretario Giuliano Amato, che erano stati i francesi con un aereo della Marina a lanciare un missile non ad impatto ma a risonanza. Se fosse stato ad impatto non ci sarebbe nulla dell’aereo». A causa della clamorosa rivelazione, arrivata dopo le definitive sentenze di assoluzione dei generali italiani per depistaggio e alto tradimento, la procura di Roma ha riaperto un’indagine ancora in corso e in dirittura d’arrivo. Circa la guerra nel cielo del Tirreno, l’ipotesi investigativa più accreditata è la seguente. A quell’epoca l’Italia permetteva alla Libia, che era sotto embargo internazionale, di entrare nel nostro spazio aereo per portare i suoi Mig 21 di fabbricazione sovietica in Jugoslavia ed essere sottoposti a manutenzione. I Mig erano usi volare in ombra radar sopra i nostri normali aerei di linea per non essere visti. La tolleranza italiana aveva indispettito i francesi che, desiderosi di darci una lezione, volevano abbattere un Mig in rotta proprio sopra l’aereo dell’Itavia: sbagliarono bersaglio. Sempre quella notte e sempre su un Mig, il colonnello Gheddafi stava solcando lo spazio italiano per recarsi in Polonia a rendere visita al generale Jaruzelski, allora ministro della Difesa. Gli italiani lo avvertirono della battaglia aerea e Gheddafi tornò indietro. All’epoca Gheddafi era inviso ai francesi che appoggiavano il Ciad nella guerra contro la Libia.

 

E torna la domanda: da Mattei sono trascorsi 60 anni, da Ustica 42. Parigi, non è tempo di dirci qualcosa?

 

Aggiornamento del 22 novembre 2022
La replica di Carlo Giovanardi e la nostra risposta