Analisi
Separare i vivi per non contare i morti: la “pulizia identitaria” che può portare alla tregua in Ucraina
Ci sono ucraini, russi, ucrainofoni che stanno con Mosca e russofoni più vicino a Kiev. Quando tacerà il cannone la loro scelta non sarà se tornare a casa ma dove
Come sarà l'Ucraina dopo una trattativa che più o meno sotterraneamente è già iniziata e che dovrebbe sfociare se non nella pace in una tregua per congelare il conflitto? È tempo di chiederselo nonostante l'infittirsi dei bombardamenti russi, l'offensiva ucraina che prosegue e gli ordigni caduti in Polonia che hanno ucciso due persone: quando si avvicinano negoziati decisivi sempre succede che si alzi la temperatura per sedersi al tavolo da una posizione più vantaggiosa e sempre sono in agguato incidenti che possono ostacolare il dialogo: nel caso polacco, dagli Usa alla Nato alla stessa dirigenza di Varsavia si è subito cercato di buttare acqua sul fuoco per non far deragliare il delicato percorso in atto.
Come sarà dunque? Viene in mente uno slogan cinico, già usato nel passato, qui ammantato però di valenze diverse: separare i vivi per non continuare a contare i morti che avrebbero superato, sui due fronti, il numero esorbitante di duecentomila. Separarli attraverso una pulizia che sarebbe improprio definire etnica per la confusa serie di varianti offerte da una popolazione di confine. Ci sono ucraini, ci sono russi, ci sono ucrainofoni che stanno con Mosca (pochi), russofoni che stanno con Kiev (molti). E dunque le categorie da prendere in esame sono piuttosto l’identità e l’ideologia. Per definizione l’identità e l’ideologia sono autocertificate, sono quanto ciascuno si sente nel profondo. E questo provoca le complicazioni.
A inizio conflitto l’Ucraina aveva quasi 44 milioni di abitanti. Di questi 8 milioni sono sfollati interni, altri 7 milioni sono profughi all’estero. Quindici milioni in totale, un terzo della popolazione. Quando tacerà il cannone la loro scelta non sarà se tornare a casa ma dove tornare a casa, dove è casa. E, il fenomeno è già parzialmente in atto, casa è dove saranno coloro che condividono la stessa visione del mondo. Stare nell’Ucraina di Zelensky (sempre che rimanga al potere) con uno sguardo rivolto verso le democrazie europee cercando di perseguire gli stessi standard in fatto di diritti civili ed economia di mercato, o stare nella Russia di Putin (sempre che rimanga al potere, più facile) dove la democrazia è considerata obsoleta e dove vige una democratura muscolare con forti venature autoritarie (eufemismo).
Una “pulizia identitaria” obbligatoria perché il numero esorbitante di vittime, la profonda spaccatura prodotta impediranno una conciliazione, almeno nei tempi brevi. Solo più avanti, e mutata qualche circostanza, popolazioni così interconnesse potranno riprendere le vecchie consuetudini di una mescolanza favorita da legami familiari oltre che storici. Il presente sarà la divisione dei destini, una sconfitta non solo delle parti in causa ma anche dei valori su cui si è costruito il Vecchio Continente. Succede alle porte dell’Unione Europea ed è un segnale catastrofico, un cattivo esempio che potrebbe dunque dilagare nell’epoca delle tentazioni sovraniste purtroppo non naufragate nemmeno sotto i colpi di una pandemia che aveva illuso circa un futuro di maggiore condivisione perché «non ci si salva da soli» nel pianeta interconnesso.
È ormai del tutto evidente che la trattativa, al netto di alcune reboanti dichiarazioni ad uso interno per meglio posizionarsi ai round finali dei tavoli di negoziato, muove dal disegno di nuovi confini frutto di una realtà del terreno sulla via di essere accettati. Lo sgombero dei russi da Kherson è la cartina di tornasole di una diplomazia sotto traccia che ha già stabilito alcune linee guida evidentemente concordate mentre si muove una pluralità di attori attorno al nocciolo decisivo Zelensky-Putin. Ne sono la riprova i primi contatti da febbraio dei capi degli 007 di Russia e Stati Uniti, l’incontro tra Biden e Xi Jinping sullo scenario di Bali. La riprova che, dopo la lunga notte della guerra, è giunto il momento della presa d’atto di una situazione difficilmente modificabile dalla forza d’urto dei due eserciti belligeranti.
Lo zar del Cremlino ha perso, non potrà mai prendere Kiev e il Paese tutto, come era nei suoi auspici iniziali e la Cina desiderosa di riprendere a pieno ritmo i commerci dovrà ridurlo alla resipiscenza. Permettendogli tuttavia di poter contrabbandare il clamoroso rovescio di quella che fu l’Armata Rossa con un surrogato di vittoria per aver allungato le mani su una fetta ulteriore di Donbass e mantenuto la contesa Crimea. «Tutti i russi in uno Stato», era la sua parola d’ordine che andrà modificata, vista la riottosità di una parte di loro a tornare sotto il dominio del Cremlino, in «tutti i russi che lo vogliono in uno Stato».
Quanto a Joe Biden, rafforzato dalle elezioni di Midterm, dovrà faticare per convincere Zelensky, in piena euforia da riconquista, che a sua volta può proclamare la vittoria per aver fermato i russi nonostante la dolorosa concessione di una fetta di territorio ma questo era il massimo risultato possibile perché il prezzo da pagare altrimenti sarebbe la terza guerra mondiale.
Si chiama realismo cinico. O, se volete, la finestra di opportunità spalancata dall’inverno per non continuare il massacro. Zelensky, in collegamento video con il G-20 di Bali (e il ministro degli Esteri russo lo è stato a sentire senza lasciare la sala...) ha enunciato i dieci punti per la pace, molti dei quali facilmente sottoscrivibili dal nemico come sicurezza nucleare, sicurezza alimentare, sicurezza energetica, rilascio di tutti i prigionieri e deportati, meccanismo di compensazione dei danni di guerra, protezione dell’ambiente. Ha invocato poi una carta delle Nazioni Unite largamente bistrattata ovunque negli ultimi decenni per il ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina e chiesto, per la protezione futura del suo Paese, alcune garanzie visto che non fa parte di alcuna alleanza militare: non ha citato l’adesione alla Nato.
È chiaramente la questione del ripristino dell’integrità territoriale che sarà motivo d’attrito. Risolvibile solo con l’ausilio della gamma di sfumature di cui dispone l’arte diplomatica. L’ipotesi più probabile è il congelamento del riconoscimento delle aree conquistate dai russi con la promessa di un referendum sul futuro status da svolgersi sotto il controllo di osservatori internazionali. Già ma con quali regole? Chi potrà votare? I residenti attuali o quelli al 24 febbraio 2022, inizio delle ostilità? E si torna alla questione iniziale della pulizia identitaria nel frattempo intercorsa. È il perenne dualismo tra autodeterminazione e inviolabilità dei confini che rientra in gioco. Due principi inconciliabili e motivo di tensioni non solo a Oriente, anche nel pacifico Occidente (Spagna, Irlanda, Scozia, Belgio...).
In ogni caso è prevedibile, dopo la tregua, che non si arriverà alla pace giusta. E torna in mente la famosa massima di Blaise Pascal: non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto. All’amara frase si può opporre solo un alibi: sì, ma abbiamo fermato la carneficina.