Grazie ai social media e alla televisione, dall’Iran ci sono arrivati in gran numero foto e filmati che mostrano vaste proteste in corso, scontri tra le file dei manifestanti e violenze perpetrate contro di loro da parte delle forze di sicurezza. Osservando le immagini si prova il desiderio di comprendere che cosa rappresentino, ma si fatica ad afferrare il quadro complessivo. E chissà quanti contenuti neppure ci pervengono a causa della censura totale dei mezzi di informazione in Iran e dell’inflessibile persecuzione dei giornalisti, spesso arrestati e incarcerati per anni per aver diffuso un video o pubblicato un articolo.
Ho imparato fin da quando ero piccolo che l’Iran – nazione islamica non araba – occupa uno spazio vuoto nella cartina geografica del mondo, particolarmente in Asia. Tenuto conto che la maggior parte delle nazioni arabe, Egitto incluso, hanno interrotto i rapporti diplomatici con l’Iran a causa delle differenze politiche e religiose, è insolito trovare chi si interessi allo studio della lingua persiana o che la parli.
Per questi motivi e perché la stampa internazionale ha altre priorità quando si tratta di scrivere o riferire notizie di avvenimenti che hanno luogo in Paesi travagliati, e in particolare in Iran, ho sentito il bisogno di saperne di più, ma dagli iraniani stessi, senza intermediari.
Non conoscendo tutto quello che attiene all’Iran, ho iniziato a cercare donne iraniane che potessero aiutarmi a comprendere le foto e i filmati che stavano dilagando sui social media e nei canali di informazione. Volevo ascoltare le voci e le spiegazioni delle donne presenti a quegli avvenimenti, così da riuscire a capire meglio la realtà che si nasconde dietro le immagini.
In circostanze normali avrei iniziato la mia ricerca direttamente dalle fonti che mi sarebbe piaciuto intervistare, ma questo mi è risultato difficoltoso per più ragioni. Prima di tutto, e questo mi riguarda in prima persona, non sono ancora autorizzato a viaggiare, e quindi non posso recarmi in Iran o da qualsiasi altra parte. In secondo luogo, se anche avessi l’opportunità di prendere un aereo, visitare l’Iran sarebbe estremamente rischioso per qualsiasi egiziano perché dai primi anni Ottanta se un egiziano dovesse mai arrivare in territorio iraniano dovrebbe sottoporsi a indagini accurate da parte degli agenti della sicurezza interna e di altri servizi.
Oltretutto la maggior parte delle persone interrogate preferisce sempre non fare questo tipo di inchieste di persona per motivi di sicurezza, nel timore che possa rivelarsi una trappola tesa dall’agenzia d’intelligence iraniana o da un’entità diversa che lavora per loro. Ho quindi cercato di lavorare su più versanti per offrire un canale sicuro di comunicazione e guadagnarmi così la fiducia delle donne che hanno partecipato alla redazione di questo articolo.
Per settimane ho cercato, tramite i contatti che avevo, chi potesse a sua volta avere contatti in Iran, o anche qualcuno che conoscesse qualcun altro. Questa parte della ricerca mi è piaciuta particolarmente perché, in questi tempi così difficili, è complicato trovare cittadini iraniani disposti a parlare di quello che sta accadendo nel loro Paese. Ho infine intervistato quattro donne: la prima vive ancora lì, due si dividono tra l’Europa e l’Iran, la quarta è fuggita dal suo Paese pochi anni fa. Tutte hanno chiesto di rispettarne l’anonimato, e quindi io ne parlo chiamandole con il titolo professionale per evitare di rivelare la loro identità a chiunque sia collegato al regime iraniano.
La storia inizia con l’assassinio di Mahsa Amini, nota anche come Jina Amini (il suo nome curdo). La sua morte mi ha turbato. La “polizia della morale islamica” – come è chiamata in Iran – aveva arrestato la giovane donna iraniana di 22 anni mentre visitava Teheran, per aver indossato male l’hijab (il velo islamico). L’avevano spinta a forza su un’auto e l’avevano portata alla stazione di polizia. I resoconti su quanto è accaduto dopo sono contrastanti. L’unico dato certo è che, dopo il suo arresto, suo fratello l’aspettava fuori dalla stazione di polizia quando ha sentito gridare forte. È arrivata un’ambulanza che ha poi trasferito la giovane in ospedale. Alcune foto circolate sui social media la raffigurano mentre le prestano cure, ma purtroppo è morta nel giro di poche ore dal ricovero.
Il governo iraniano ha poi affermato che la giovane è morta mentre riceveva istruzioni su come indossare correttamente il velo, ma molti hanno confutato questa versione perché le foto pubblicate la ritraggono in ospedale con un’emorragia dall’orecchio, il che lascia intuire che avesse ricevuto una forte botta alla testa. A causa di questa tragedia, molte persone si sono riunite di fronte all’ospedale dove Mahsa/Jina è morta. Quando la polizia ha visto la folla, è intervenuta con gas lacrimogeni e manganelli per disperdere i manifestanti. Non appena la notizia della sua morte ha raggiunto la sua terra natale nella regione del Kurdistan ed è circolata sugli organi di informazione, la situazione in Iran è precipitata e i manifestanti hanno iniziato a protestare in tutta la nazione. Si tratta di qualcosa di completamente inimmaginabile per le autorità iraniane.
“La polizia della morale islamica” e il “trauma" della Rivoluzione Verde
L’idea di indossare il velo sul capo si fece strada per la prima volta dopo la rivoluzione del 1979, ma la “polizia della morale islamica” debuttò ufficialmente soltanto nel 1990, in concomitanza con la guerra con l’Iraq. Tra il 1979 e il 1990, la polizia costrinse le donne iraniane a indossare l’hijab come stabilito, e il problema persistette fino a quando non fu creata una forza di polizia incaricata di vigilare sul comportamento dei cittadini in generale per strada e in particolare sul modo di vestire e di comportarsi delle donne.
«Il concetto di polizia della morale non ci è nuovo. Eravamo abituati a vederla in azione tutti i giorni per le strade del Paese mentre opprimeva le donne. Il 4 novembre 2009, durante il Movimento Verde, ho avuto io stessa a che fare con loro». Così parla una ricercatrice iraniana che oggi risiede in Europa e che preferisce restare anonima: «Avevo deciso di partecipare a quelle manifestazioni ed ero diretta in via ‘Haft-e tir’, una delle più importanti arterie di comunicazione che portano a Teheran. A un certo punto decisi di togliermi l’hijab e lo gettai a terra. Mi trovai immediatamente circondata da parecchi uomini che mi urlarono contro di rimettermi subito il velo, ma io risposi che non erano fatti loro».
Il Movimento Verde iraniano, o “Jonbesh e Sabz” scese in piazza nel giugno 2009. Dopo che i risultati elettorali mostrarono che Ahmadinejad aveva vinto con discreto margine, coloro che si erano candidati contro di lui protestarono insieme a numerosi membri dell’Assemblea del Popolo che espressero ad alta voce il loro disappunto. Questo diede il via al più grande movimento popolare in Iran dal 1979. Le strade e le piazze di Teheran, Isfahan, Shiraz e di molte altre città si riempirono di folla.
La mia interlocutrice ha così proseguito nel suo racconto: «Arrivarono quattro donne e mi trascinarono verso un autobus, a bordo del quale c’erano molti manifestanti in manette e bendati. A me non fecero niente del genere». La ricercatrice aveva sentito parlare di donne condannate ad anni di prigione per aver indossato male l’hijab, quindi naturalmente fu presa dal panico. «Quando arrivammo alla stazione di polizia, una di loro mi portò un modulo da firmare nel quale giuravo che non avrei mai più ripetuto il mio gesto. Considerato che quella è una strada dalla quale non c’è un ritorno assicurato, fui abbastanza fortunata».
La “polizia della morale” ha fatto ricorso alla violenza in altri casi, prima di quello di Mahsa/Jina Amini, ma gli episodi precedenti non avevano attirato l’interesse dei media o scatenato una reazione simile. Sattar Beheshti, attivista dei lavoratori, è stato ucciso dopo essersi lamentato con la polizia di aver subito torture mentre si trovava in carcere. Oltre a questo, la “polizia della morale” aveva tenuto reclusa in un centro di detenzione la fotogiornalista iraniano-canadese Zahra Kazimi, poi assassinata in una delle stazioni della polizia.
Un’altra delle donne che ho intervistato è un’artista. Mi dice che è stata sottoposta a varie persecuzioni da parte degli agenti di questa divisione, ma crede che la faccenda vari da città a città, da un quartiere all’altro, addirittura da persona a persona, e che siano molti i fattori che interferiscono nelle modalità con le quali gli agenti interagiscono con le donne. Il suo problema più grande era proprio l’impatto di questa forma di controllo su di lei: ogni volta che la polizia esprimeva commenti sul suo abbigliamento o la fermava, lei si sentiva priva di volontà propria.
«Mi hanno fermato parecchie volte mentre andavo all’università di Mashhad o tornavo a casa. Ho avuto parecchi diverbi con loro. Immagina un gruppo di poliziotti che ti si avvicina mentre esci dall’università e ti chiede di indossare il velo in un dato modo perché non gli va bene come lo stai portando».
Due avvenimenti hanno influito sulla sua decisione di lasciare l’Iran. Il primo risale a quando, nell’ultimo periodo in cui frequentava l’università di Al-Mashhad, un poliziotto la avvicinò ed espresse insoddisfazione per come si era seduta e la accusò di non avere rispetto. Lei soffriva a causa delle numerose restrizioni a cui era soggetta in ogni aspetto della sua vita, a cominciare dal suo abbigliamento, da quello che beveva, e anche da come si sedeva.
«Negli ultimi giorni di università, prima che lasciassi l’Iran, un gruppo di agenti è venuto a dirmi che mi sedevo in un modo che a loro non andava bene. Dovevo impegnarmi molto e con tutte le mie energie per tollerare quelle restrizioni al mio abbigliamento e al mio modo di camminare e di respirare», mi ha raccontato.
«Il secondo episodio fu quando decisi di tornare a casa da un esame che si era concluso di sera in compagnia di un gruppo di colleghi, uomini inclusi. Mi sequestrarono i documenti d’identità. Il giorno seguente dovetti andare a riprenderli alla stazione della polizia dentro l’università, accompagnata dai miei familiari».
Le autorità non hanno esitato a imporre restrizioni ancora più rigide alla libertà, soprattutto rispetto ai corpi femminili. La “polizia della morale” è uno dei volti della repressione in Iran delle donne, ma è anche la manifestazione più visibile della violenza diretta e quotidiana perpetrata contro il corpo femminile in generale. In ogni caso, abbiamo scoperto che le vite delle donne iraniane e di tutte le minoranze di genere che non siano uomini musulmani eterosessuali sono limitate da molte altre restrizioni.
Quando ho citato la “polizia della morale islamica” a tre delle quattro donne con le quali ho parlato, la prima cosa che è venuta loro in mente è stato il ricordo del Movimento Verde del 2009, quando il regime iraniano usò questa divisione della polizia come arma di repressione per fermare e intimidire le donne che partecipavano alle proteste. Gli agenti che ne facevano parte seguivano le donne che prendevano parte alle manifestazioni per identificarle nel caso in cui non indossassero l’hijab.
«Non sapevo se mi avessero trascinata via perché non indossavo correttamente l’hijab o perché avevo partecipato alle manifestazioni», mi ha detto un’altra delle intervistate, che adesso lavora come assistente presso un’università europea. «Ero terrorizzata e scioccata, ma mi reputo fortunata perché sono libera e sono qui a parlarne con te».
Non c’è donna iraniana che abbia potuto sottrarsi ai commenti della polizia della morale islamica riguardanti il suo corpo, il suo aspetto, il suo abbigliamento. L’assistente universitaria aggiunge di essere stata vessata in più occasioni quando viveva in Iran, oltre a essere stata arrestata almeno due volte, una a Teheran e una a Isfahan. In quest’ultimo caso, è stata fermata insieme a un’amica per aver messo il rossetto: entrambe sono state costrette a firmare un documento nel quale dichiaravano che non l’avrebbero fatto mai più.
Poiché volevo conoscere i motivi del suo primo arresto, le ho chiesto informazioni sull’episodio di Teheran e perché l’avessero fermata. «Mi hanno detto di cambiare gli abiti che indossavo, perché a loro dire erano inappropriati», mi ha spiegato. «Così ho telefonato a mia madre e le ho domandato di venire a prendermi alla stazione di polizia e di portarmi vestiti più adatti».
Secondo le testimonianze, malgrado il suo potere e la sua organizzazione, la “polizia della morale” non è in grado di tenere sotto controllo le azioni di tutte le donne iraniane. Anzi, chiacchierando con loro ho scoperto che niente di quello che gli agenti facevano o fanno ha avuto effetto di alcun genere sul loro modo di vestire o sul loro modo di credere nella libertà di vestirsi, sedersi, o perfino stare insieme ad altre persone. L’assistente universitaria ha concluso dicendo che dopo essere uscita dalla stazione della polizia, una volta consegnata alla madre, è ritornata a indossare gli stessi abiti per i quali era stata arrestata, perché credeva che nessuno avesse il diritto di dirle che cosa fare.
Il movimento e le femministe iraniane
Ero molto curioso di sapere in che modo ciascuna di loro avesse accolto la notizia della morte di Mahsa/Jina Amini, perché ciascuna esercita una professione diversa in regioni diverse del mondo, ma in passato tutte hanno condiviso la medesima esperienza dell’arresto e dei soprusi.
L’assistente universitaria crede che i giornali stranieri, in particolare quelli americani, rispettino criteri diversi nella copertura degli avvenimenti e nelle loro trasmissioni; quindi, preferisce seguire quello che accade in Iran dai siti web e dagli account iraniani e non da quelli stranieri. «La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho saputo della morte di Mahsa Amini è stata l’incidente aereo». L’8 gennaio 2020 un aereo della Ukraine International Airlines, a bordo del quale viaggiava un gruppo di brillanti ricercatori e professori iraniani, precipitò e tutti persero la vita. Quella sciagura ha avuto un impatto molto significativo su di lei, perché morirono persone di talento e molto dotate che avrebbero apportato grandi benefici al suo Paese.
L’opinione dell’artista non differisce granché in termini di mancanza di fiducia nei notiziari trasmessi dai mezzi stranieri di comunicazione: anche lei segue soltanto quelli iraniani. «All’annuncio della notizia non sono riuscita a controllarmi e ho trascorso una settimana intera quasi paralizzata: non volevo saperne di più, poi ho vinto le mie paure e ho iniziato ad approfondire nei dettagli», ha detto circa quello che ha provato dopo aver saputo dell’incidente aereo.
Durante la mia conversazione con lei, la ricercatrice è stata la più prudente di tutte, perché si divide tra Europa e Iran, dove vive ancora la sua famiglia, e non può allontanarsi dai suoi cari per lunghi periodi. «Le minoranze in Iran sono in cattive acque da molto tempo e aspettavano circostanze come queste per farsi avanti e dichiarare la loro ribellione contro questo regime tirannico teocratico», ha detto.
La prima scintilla delle proteste non è partita, come di consueto, da Teheran: l’ho appurato dalle mie conversazioni con le quattro donne. Spesso mi ero chiesto se questo movimento si limitasse alla capitale e alla regione circostante. Si tratta forse di un movimento circoscritto ad alcune donne di una data classe sociale? Oppure è un movimento femminista in senso più ampio? Poiché queste domande mi venivano spontanee ogni volta che vedevo le immagini della rivolta, ero impaziente di saperne di più da loro. Secondo l’assistente universitaria, «abbiamo ascoltato nomi di città e paesi mai sentiti prima. Questo movimento è diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. È andato crescendo rapidamente, dopo che la notizia della morte di Mahsa/Jina Amini ha iniziato a circolare in tutto l’Iran».
«Le donne si danno appuntamento sulla tomba di Mahsa/Jina Amini per togliersi il velo e scandire ad alta voce “Jin, Jiyan, Azadî”, che significa donne, vita, libertà, ed è uno slogan curdo in uso da tempo», ha detto. In risposta alla stessa domanda, ha aggiunto che «contrariamente a quanto è accaduto dal 2009 al 2017, il movimento si è rafforzato proprio nei paesini e nelle piccole città che di solito non si univano alle proteste».
Sulla tomba di Mahsa, nella sua città natale, è scritto: “Cara Mahsa, non sei morta, continuerai a vivere come icona per sempre”. Questo mi ha spinto a chiedermi perché la sua morte abbia fatto infuriare le donne iraniane più di qualsiasi evento passato.
Come ho già detto, dato che in precedenza non ero stato fortunato e non ero riuscito a intervistare donne iraniane, non ero a conoscenza di come sia strutturato il movimento femminista in Iran e in che modo affronti tutte le repressioni messe in atto contro le donne. Qual è la posizione delle femministe iraniane? A quale scuola di pensiero appartengono? Il movimento femminista è perlopiù intersezionale oppure è un movimento popolare partito dai sedimenti del movimento femminista sul campo?
«Il movimento femminista iraniano è diversificato e non si caratterizza per un’unica corrente», dice l’artista. Le proteste non sono soltanto contro il velo, ma anche contro un sistema patriarcale radicato in profondità. «Noi abbiamo uno slogan curdo che dice “donne, vita, libertà”. È questo lo slogan attorno al quale ci stringiamo tutte, perché difende tutti gli oppressi. Rappresenta la libertà totale per noi, e il movimento non è soltanto femminista, ma anche un movimento popolare di massa che non si vedeva da molti anni».
Secondo la ricercatrice, che segue da vicino il movimento femminista iraniano da quasi 14 anni, non si può definire con precisione il movimento ed etichettarlo in base a un’unica corrente di pensiero. Tutte le correnti, malgrado le loro affiliazioni diverse, difendono le donne e hanno usato i social media per diffondere le loro idee su ampia scala all’interno dell’Iran e per migliorare la consapevolezza delle altre donne, e questo ha avuto un’influenza sulla solidarietà e sulla presa di coscienza.
La professoressa con cui mi sono confrontato crede che il movimento femminista iraniano sia profondo e ramificato in più località, ma ha citato anche movimenti come “Le ragazze di Enghelab Street” (il corrispettivo iraniano del movimento MeToo) e il “Movimento dei mercoledì bianchi” (che si batte contro l’obbligo di portare l’hijab) e ha detto che tutti si caratterizzano per il fatto di essere decentrati, quindi non è stata in grado di dire se le dimostrazioni si stiano concentrando in una città in particolare e non in altre.
Il movimento/la rivoluzione proseguirà? Avrà un impatto sulla politica regionale?
Dopo circa quaranta giorni, ci si presenta una scena spaventosa: migliaia di persone si dirigono verso la tomba di Mahsa Amini mentre gli agenti della sicurezza iraniana cercano in ogni modo di impedire che raggiungano la loro meta. Ma ci sono troppe persone per controllarle tutte. Inoltre, tutte le persone con cui ho parlato hanno confermato che gli agenti della polizia sono in ranghi assai ridotti. Di conseguenza, nel suo tentativo di tenere sotto controllo i movimenti popolari in tutte le città iraniane, il governo di Teheran ha dovuto fare ricorso alla forza bruta come mai prima d’ora. Molte persone sono state uccise e numerosi attivisti e partecipanti sono stati arrestati per cercare di tenere la situazione sotto controllo. Il problema, però, come ho detto prima, è troppo vasto per essere contenuto interamente con l’arresto di giornalisti e di attivisti per i diritti umani.
Secondo la professoressa, è difficile determinare se quello in piazza sia un movimento o una rivoluzione. Lei non vuole essere delusa ancora una volta perché, da quello che dice, sta ancora soffrendo per gli effetti psicologici di quanto avvenne nel 2009 durante il Movimento Verde. Dice che quei giorni sono scolpiti nitidamente nei suoi ricordi, e che sta cercando ancora adesso di riprendersi. Stando alla sua descrizione fu come «abbracciare il sogno di liberarsi per sempre della dittatura».
Quello che ho notato, chiacchierando con tutte e quattro sui loro punti di vista e su quello che le aspetta, anche considerando le differenze di età, è che perlopiù tutte hanno paura ma anche speranza: un tempo avevano un sogno in cui credere e a cui hanno rinunciato fino ad adesso, ora sono molto prudenti e cercano di frenare la loro immaginazione muovendosi con cautela.
«Non posso definire rivoluzione quello che sta accadendo, almeno finora», dice la professoressa. Secondo lei, si è alle prese con un regime molto potente che dispone di tutti i mezzi per sbaragliare qualsiasi movimento o spinta al cambiamento. Tuttavia, aggiunge anche che niente è impossibile. Le cose potrebbero cambiare in un istante, se la gente si rendesse conto di aver raggiunto l’obiettivo della libertà. È a conoscenza di molti incontri dietro le quinte tra le forze rivoluzionarie iraniane che seguono passo passo quanto sta accadendo, lontano dagli occhi delle Guardie della Rivoluzione. Dice anche che se si riuscisse a dare un’organizzazione precisa al movimento, ogni cosa potrebbe ancora cambiare, anche lontano dagli occhi dell’Occidente e senza che questo se ne accorga.
La ricercatrice e l’assistente universitaria concordano su un punto: non possono prevedere se la continuità sia possibile o meno. In ogni caso, quando ho chiesto informazioni sulla portata di quanto sta accadendo, la ricercatrice mi ha detto: «Non si può giudicare un movimento dalle sue dimensioni. La gente in strada si arrabbia quando le dici di andarsene. Così oggi scandisce di continuo due slogan: “Non un movimento, ma una rivoluzione” e “Questo è l’anno del sangue, rovesceremo Sayyd Ali”, in riferimento ad Ali Khamenei».
L’assistente ha detto che «finché sfileremo per le strade c’è speranza, ma le autorità ricorrono a metodi molto repressivi. Dal mio punto di vista continuità significa vittoria, perché la gente in strada parla di rivoluzione e la rabbia è arrivata a livelli altissimi, come non era mai successo in precedenza».
Continuando a chiacchierare, siamo passati a parlare dei grandi cambiamenti in corso negli ultimi tempi in Arabia Saudita e se tali cambiamenti siano focalizzati sulle libertà e in particolare un’apertura. Mi chiedo se le donne iraniane credano che la nuova situazione saudita, con tutte queste trasformazioni, abbia potuto influenzare quello che sta succedendo in Iran. Io, infatti, sono del parere che la rivoluzione sia spesso un segnale d’allerta di una forma di contagio che si diffonde in lungo e in largo per ricordare alla popolazione che è possibile cambiare le cose. Le rivoluzioni della Primavera araba, iniziate in Tunisia e propagatesi ovunque nella regione, ne sono un esempio.
Ho scoperto che le mie interlocutrici avevano opinioni diverse a questo riguardo: l’artista crede in qualcosa di simile, in quanto Arabia Saudita e Iran hanno una situazione geopolitica affine e una stessa topografia. Mi ha spiegato che questo parallelo porta i due Paesi a condividere esperienze analoghe, tra cui il timore che gli iraniani abbiano scoperto che un cambiamento può esserci, dopo quello che è accaduto in Arabia Saudita.
Le altre hanno espresso un’opinione diversa. Non hanno visto un collegamento particolare tra quanto sta accadendo in Arabia Saudita e quello che sta accadendo in Iran. La prima è stata la professoressa che mi ha detto che non sognano l’Arabia Saudita, perché «il loro sogno è più grande ancora». Lei pensa che l’Iran, con il suo movimento, possa spingersi oltre. Tuttavia, mi ha garantito che l’intero sud del mondo sta imparando dalle lotte altrui per la libertà, ma la situazione in Arabia Saudita non è paragonabile alla nostra perché loro non avevano un movimento dal quale partire. In verità, sono d’accordo con lei che il cambiamento saudita sia dovuto a un cambiamento politico, a considerazioni economiche e a un desiderio di apertura, più che al fatto che le autorità saudite sono state costrette a operare un cambiamento.
Quando ho parlato di Arabia Saudita, l’artista si è risentita. Lei crede che i sauditi non abbiano niente a che spartire con gli arabi o i musulmani. Ammette che la Shia iraniana non ha niente in comune con i sunniti. «Anzi, vi è una spaccatura», ha dichiarato. «Finora, l’impatto delle conquiste islamiche del 1400 è stato devastante. Finora, ci siamo sentiti così. Chiedi a qualsiasi iraniano che manifesta per strada: ti dirà che stiamo pagando il prezzo della corruzione autoritaria».
I sogni iraniani
Infine, ho cercato di saperne di più riguardo ai loro sogni personali, in quanto le donne iraniane sono parte integrante di questo quadro. Che cosa si aspettano da quello che sta succedendo nelle strade e nelle piazze? Fino a dove si spinge il loro sogno? Tutte loro sono vittime di un sogno precedente che le ha deluse, e una di loro è arrivata a descriverlo «qualcosa che si è portato via parte della nostra anima».
L’assistente universitaria mi ha detto che lei sogna di diffondere la democrazia e dice anche che «non dobbiamo tornare al passato». La cosa più importante, tuttavia, è che lei non vuole che la popolazione debba subire altre perdite e sofferenze, perché non potrebbe mai realizzare il suo sogno a partire da altre perdite. Lei auspica che le donne possano perseguire fino in fondo i loro obiettivi e porre fine al patriarcato e alla dittatura.
La professoressa spera di avere l’opportunità di tornare ancora una volta in Iran. Il suo obiettivo è far ritorno sana e salva nel suo Paese natale. Negli ultimi anni è stata molto attiva in Europa e, se dovesse tornare, sarebbe arrestata e rinchiusa in carcere. Il suo desiderio è vedere riunita la sua famiglia in Iran, senza avere più paura.
I sogni della ricercatrice si limitano a una lettera scritta da Mir-Hossein Mousavi su Statement No. 13 nel 2009, dove si legge: «La nostra vittoria non è qualcosa per cui qualcuno poi si ritrova in condizioni peggiori di prima. Dobbiamo arrivare alla vittoria tutti insieme, anche se alcuni di noi sono lenti a riconoscere le buone notizie».
Lei sogna un popolo vittorioso che riesca a capire che il benessere si basa sull’accettazione reciproca e sulla coesistenza, malgrado tutte le differenze. Desidera la libertà non solo per sé stessa e ciò in cui crede, ma anche per i suoi nemici.
Per quanto riguarda l’artista, i suoi sogni si limitano a un’unica frase: «Non penso che siano sogni: o conquisteremo la libertà, oppure moriremo a testa alta».
Traduzione di Anna Bissanti
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