Consumo di suolo e di acqua, paesi devastati, fiumi inquinati, popolazioni malate. L’attività estrattiva doveva sostenere il Pil, ma il governo ha lasciato mano libera alle multinazionali che hanno fatto razzia impoverendo le campagne

Da lontano, Alto Huancané sembra una città fantasma. Le case costruite con un impasto fatto d’argilla, sabbia e paglia si sgretolano quando il vento tira forte. Dentro, gli abitanti della piccola comunità contadina nella provincia di Espinar, in Perù, dormono sulle pelli di pecora o alpaca che coprono il pavimento di terra battuta. A pochi chilometri sorge la miniera di Tintaya. Un’enorme voragine che spacca il terreno da cui si estraeva rame fino al 2011.

 

Quando l’attività è cominciata, nel 1980, gli abitanti avevano pensato che fosse una buona notizia. La miniera apparteneva allo Stato peruviano e doveva portare sviluppo, soldi e garantire nuove possibilità di crescita e istruzione anche a chi vive nella miriade di piccole comunità che puntellano la cordigliera delle Ande, accanto al sito. Ma così non è stato. Sebbene Tintaya sia diventato, in pochi anni, il terzo polo del Paese per l’estrazione di rame.

Nel 1994, con il periodo delle privatizzazioni reso possibile dalla Costituzione, ancora vigente, voluta da Alberto Fujimori, la miniera è stata acquisita da un consorzio americano, che poi è stato assorbito da un’azienda più grande che si è fusa con un’altra società, che è stata rilevata da una nuova compagnia.

 

Oggi la miniera è di proprietà della multinazionale svizzera Glencore. Che da quando Tintaya ha esaurito il suo potenziale ha iniziato a gestire un nuovo sito estrattivo: Antapaccay. Distante solo pochi chilometri dalla prima voragine e dalle piccole comunità contadine dove vivono per la maggior parte autoctoni.

 

Così nella provincia di Espinar l’attività mineraria prosegue da oltre 40 anni. Ha devastato l’area e l’ha trasformata in una prova dell’impatto che l’estrazione di materiali dal sottosuolo genera su persone e ambiente, soprattutto quando è scarsamente regolamentata. A meno di cinquecento chilometri da Cusco, la storica capitale dell’Impero Inca, celebre attrazione per turisti che arrivano da tutto il mondo, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco.

«Penso che l’estrazione mineraria sia l’attività che sta facendo più danni al nostro pianeta. Sta distruggendo le sorgenti d’acqua, inquinando i fiumi, uccidendo la gente. Per me è il peggiore genocidio che ci sia mai stato», spiega Vidal Merma, attivista, giornalista peruviano nato e cresciuto nei dintorni di Yauri, il capoluogo della provincia di Espinar.

 

«Quando l’impresa mineraria è arrivata ci aveva promesso nuovi posti di lavoro, nuove opportunità di studio. Sono passati più di quarant’anni e non abbiamo neanche l’acqua». Infatti, a Yauri l’acqua potabile arriva solo per un paio d’ore al giorno, mentre chi vive nelle campagne continua a utilizzare quella dei fiumi che, da quando si è intensificata l’estrazione dei minerali, è inquinata.

 

Un danno collaterale dovuto alle ingenti quantità d’acqua di cui le miniere hanno bisogno per raffreddare i sistemi e lavorare i minerali per prepararli all’esportazione che avviene attraverso il corridoio minerario, quasi cinquecento chilometri di strada che taglia il Perù. Collega i principali siti estrattivi del Paese dalla regione di Apurimac, al porto di Matarani, a Sud, da cui migliaia di tonnellate di rame, oro, argento e altri minerali partono per Europa e Asia.

Secondo l’organizzazione Human rights without borders, nel 2012 la produzione di rame nella miniera di Antapaccay è stata di oltre 51 mila tonnellate. Nel 2018 è salita a più di duecentomila. Nel 2016 Glencore avrebbe ricavato più di 3 miliardi dalle vendite dei minerali estratti dalla miniera. Eppure, i benefici per le popolazioni locali sono stati minimi. Per alcuni inesistenti. Per tanti altri le condizioni di vita sono peggiorate.

 

«I nostri animali muoiono. E le persone si ammalano misteriosamente. Come se una nuova e sconosciuta piaga stesse colpendo solo chi vive qui. Ma in realtà questa malattia ha un nome, è il cancro. Ha ucciso tanti miei compaesani. Ed è una conseguenza dell’intossicazione da metalli pesanti», dice Merma. Più studi, come quello del Censopas, Centro nazionale per la salute sul lavoro e la protezione ambientale, del ministero della Salute, hanno dimostrato la presenza di piombo, arsenico, mercurio e di altre sostanze dannose nel sangue e nelle urine delle persone che vivono in prossimità della miniera.

 

Come spiega Gloria Gabriel Cardenas Alarcon, chirurga dell’ospedale Espinar: «Il danno dell’intossicazione da metalli pesanti è incommensurabile. Ci sono analisi che dimostrano che l’acqua dei fiumi è contaminata. Ed è l’acqua che utilizziamo tutti. Anche l’aria qui è contaminata. C’è una relazione molto forte tra i casi di danno neurologico ai tessuti, alle cellule, e la presenza di metalli nel sangue delle persone. Si tratta di un avvelenamento lento che dà origine a malattie endocrine, è associato al diabete, al cancro, a problemi di tiroide e di sviluppo mentale, alla leucemia». Ma nessuna istituzione ha mai certificato la correlazione tra acqua e terre contaminate, la salute della popolazione e l’attività mineraria. Per questo le imprese continuano a lavorare senza farsi carico delle responsabilità. «Guadagnando sulle spalle di chi vive vicino ai siti estrattivi», aggiunge Merma.

Nella provincia di Espinar, secondo la mappa dell’Istituto di statistica peruviano, tra il 24 e il 38 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà. Cinque bambini su dieci soffrono di anemia. È tra le aree del Paese in cui più persone hanno una cattiva alimentazione. Infatti, sebbene l’attività mineraria sia vista come un generatore di reddito perché contribuisce alla crescita del Pil, è anche un settore che crea conflitti sociali e incide sul modo di vivere, sugli usi e sui costumi delle comunità. Così mentre Lima, la capitale, e le altre grandi città del Perù crescono, le comunità contadine si spopolano.

 

E se prima vivevano di agricoltura e allevamento oggi rimangono senza risorse, con le sorgenti d’acqua inquinate, i campi aridi e il bestiame decimato. Anche perché non esiste un piano di sviluppo organico per l’intero Paese, non ci sono progetti municipali o statali pensati a vantaggio delle popolazioni delle aree accanto alle miniere, come Espinar. E poi c’è il problema della corruzione: l’uso improprio delle risorse pubbliche che perpetua la povertà.

 

«L’estrazione mineraria mette a rischio i diritti delle persone e dell’ambiente», spiega Rocio Silva-Santisteban, ex deputata peruviana, avvocatessa per i diritti umani, specializzata nella difesa delle donne vittime di violenza durante i conflitti sociali: «L’arrivo della miniera stravolge completamente la vita delle comunità. È una forma di violenza da parte dello Stato, che porta alla criminalizzazione della protesta sociale. Il grandissimo potere economico degli imprenditori permette la violazione dei diritti delle popolazioni indigene. Che sono le legittime proprietarie delle terre ma non di quanto c’è sotto. Ecco perché lo Stato dà le concessioni alle compagnie minerarie che in una prima fase di esplorazione dovrebbero quantificare l’impatto ambientale e dovrebbero consultarsi con gli abitanti della zona. Ci sono leggi che impongono queste procedure. Il problema è che non vengono rispettate».

 

Come aggiunge Merma, infatti, «molto spesso il processo di istallazione di una miniera non avviene con trasparenza. Gli imprenditori fanno promesse che non mantengono e ingannano la popolazione. Per fortuna la conoscenza di quanto è avvenuto in altri territori, come a Espinar, sta portando sempre più comunità a prendere coscienza dei rischi della miniera. E ci sono progetti che vengono bloccati dalla lotta della popolazione per difendere il territorio come Tia Maria, nella regione di Arequipa».

Ma l’incremento esponenziale dell’estrazione non regolamentata non è una piaga che affligge solo il Perù. Come si capisce dal documentario “Il prezzo della terra”, realizzato dal fotografo Alessandro Cinque e dal videomaker Giorgio Ghiotto in Perù, Bolivia ed Ecuador per WeWorld, onlus impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne, bambine e bambini in 27 Paesi nel mondo, le storie di chi vive sulla propria pelle i devastanti impatti ambientali, sociali, economici e di genere arrivano da tutta l’America Latina. Nella maggior parte sono conseguenza dell’attività di imprese straniere, il cui obiettivo è il profitto a scapito del rispetto dei territori in cui operano. Causando danni che colpiscono l’intero pianeta, che dal locale si riflettono sul benessere globale. «Le aziende dovrebbero farsi carico delle responsabilità sociali che derivano dalla loro attività», conclude Merma.

 

Proprio affinché accada, lo scorso febbraio la Commissione europea ha proposto la Direttiva sulla “Due diligence”. Secondo cui le aziende sono legalmente responsabili delle conseguenze del loro operato e devono garantire accesso alla giustizia alle vittime degli abusi. Mappare i rischi su ambiente e diritti umani, prevenire gli impatti negativi e definire le misure di rimedio non saranno più scelte ma obblighi che le aziende dovranno rispettare. Sebbene la Direttiva contenga alcuni punti critici che limitano la sua capacità effettiva di tutelare ambiente e persone, si tratta di un passo importante per dare vita a un’economia più sostenibile e per rendere i consumatori consapevoli.

 

Anche per questo è stato realizzato il documentario “Il prezzo della Terra”, presentato in anteprima al festival “Terra di Tutti” lo scorso ottobre a Bologna, per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su quanto accade in aree remote del mondo, spesso dimenticate. Perché la conoscenza sia strumento di miglioramento sociale.