L’opera autobiografica che racchiude oltre cinquant’anni di ricordi personali e di racconti sulla storia francese, debutta in sala come documentario, firmato dalla Premio Nobel e dal figlio David

Immagini fugaci, sprazzi di vita quotidiana. Azioni, oggetti, idee, sensazioni. Domande e risposte. “Gli anni” di Annie Ernaux è un compendio di ciò che può significare essere donna, madre, moglie o figlia in Occidente attraverso i decenni. Esperienza dai sedici ai quarant’anni, «con parole che non siano frasi fatte e stereotipi», di quella “Donna gelata” che ritrova dopo il matrimonio l’adolescenza dove l’aveva lasciata, «le stesse aspettative gli stessi desideri, senza più vergognarsi di appagarli fino in fondo». E nella «perentoria adesione al proprio corpo» riscopre non solo la rivoluzione sessuale del ’68 ma anche «la paura di invecchiare, dell’odore del sangue che le mancherà».

Nel libro del 2008, arrivato in Italia nel 2015 con L’Orma editore, la scrittrice Premio Nobel frammenta la sua esperienza in frasi brevissime, paragrafi di poche parole, di poche righe, in cui è racchiusa una storia che da personale si fa universale. Cifra stilistica e valore stesso della sua letteratura. Tra le testimonianze impresse su carta, c’è un periodo, racchiuso nel decennio degli anni Settanta, in cui un altro strumento si aggiunge alla sua penna: la macchina da presa in formato Super 8, la pellicola dei film di famiglia, status symbol di una borghesia agiata ed “esploratrice” di altri mondi. «Accompagnati dal ronzio del proiettore, restavamo sconcertati nel vederci per la prima volta camminare, muovere le labbra, ridere silenziosamente sullo schermo srotolato in salotto. (…) Non riuscivamo a capacitarci che fosse quella che gli altri sentivano. Diventavamo più consapevoli di noi stessi, perdevamo in naturalezza», si legge fra le pagine. Proprio da qui, e dai veri filmati conservati dalla scrittrice, Annie Ernaux e il figlio David Ernaux-Briot traggono ispirazione per il documentario “Les années Super 8”, che ha debuttato alla scorsa Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e, dopo il passaggio alla Festa del cinema di Roma lo scorso ottobre, è nelle sale italiane dal 6 dicembre. Un testo inedito, letto dalla stessa Ernaux, commenta fuori campo immagini che sembra di conoscere già, radicate come sono nel tessuto dei suoi scritti. Con una capacità di analisi chirurgica, sia su di sé che sugli altri, l’autrice ripercorre i momenti che dal 1972 al 1981 l’allora marito Philippe Ernaux ha scelto di immortalare.

A differenza del libro, «autobiografia in cui non compare mai la parola Io», come lo definisce l’editore e traduttore italiano Lorenzo Flabbi, le immagini hanno un potere autoreferenziale massimo. La donna di cui Annie Ernaux parla spesso in terza persona, non può che avere il suo volto e i suoi occhi azzurri di fronte a un pubblico. Sempre a Flabbi, durante l’incontro organizzato lo scorso ottobre a Roma, Ernaux rivela: «Scrivere partendo dalle immagini in movimento è totalmente diverso. Ne ero sottomessa, erano loro a darmi il filo del racconto. Dovevo reinserirle nell’epoca, riportarle al periodo della mia vita a cui si riferivano. Non erano più i miei ricordi, raccontavo la mia famiglia e il mondo oltre che me stessa, non poteva essere più soltanto un’autobiografia». E il mondo di cui racconta è quello prima del 1989, un’istantanea prima del crollo del muro, tra l’Albania filo-cinese e il Cile di Allende. Sguardi che, pur filtrati da una prospettiva borghese e benestante di sinistra, offrono anche un prezioso documento storico.

L’intervista
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Con risultati diversi, quella di “Les années Super 8” è la stessa idea che muove i passi e i corpi di “Ballando ballando”, grande film di Ettore Scola a cui l’autrice ammette di aver fatto riferimento in modo inconscio fin da subito: «da quando l’ho visto mi son detta, ‘voglio scrivere un libro così, voglio scrivere un libro che gli somigli, ma come fare? È un film fatto solo di balli, mentre io lavoro con le parole». Alla fine ci è riuscita, è riuscita a far trapelare la storia, sua e di tutti, dalla danza delle sue parole, prima, e poi dei suoi filmati. Perché, se è vero come scrive, che «tutte le immagini scompariranno» almeno queste sono state fermate nel tempo per cogliere «ciò che non avremmo potuto vivere due volte».