Confermate le previsioni della vigilia. L'annuncio è stato dato nella sede dell'Accademia svedese

La scrittrice francese 82enne vince il Premio Nobel per la letteratura. Confermate le previsioni della vigilia. Ernaux è autrice di romanzi incentrati su temi forti declinati al femminile a partire da corpo delle donne e dai diritti negati. In questa intervista, che vi riproponiamo, il suo racconto autobiografico a partire dal libro L’Evento ambientato nella Francia, 1963: una giovane studentessa rimane incinta e fa di tutto per interrompere la gravidanza. Il racconto autobiografico della grande scrittrice. Da questo libro è stato tratto il film “L’Evento”, Leone d'oro alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.

 

 

“L’evento” di Annie Ernaux, appena uscito in Italia per i tipi de L’orma, trova origine in una dolorosa vicenda autobiografica: nella Rouen del 1963 una giovane studentessa rimane incinta e cerca disperatamente di abortire in modo clandestino. Traducendo in scrittura questa esperienza l’autrice riporta alla luce una ferita collettiva: mentre ripercorre con uno stile asciutto e prodi-gioso quei giorni terribili, infatti, costringe chi legge a pensare a tutte le donne che ancora oggi non si vedono riconosciuto il diritto di disporre di se stesse. Nonostante l’esistenza della legge 194, nel nostro Paese il dibattito sull’aborto è ancora aperto non solo per la complessità del tema ma anche per le limitazioni della stessa legge che ne ostacolano troppo spesso l’effettiva applicazione.

A monte di ogni discussione in merito, comunque, resta il quadro di una società in cui la parità di genere è ancora un obiettivo da raggiungere in troppi ambiti. Dall’urgenza di affrontare questi temi già in età scolare è nata l’esperienza del Tavolo delle ragazze, che mette a confronto donne di diverse generazioni su femminismo e diritti umani. In occasione dell’uscita de “L’evento” anche Annie Ernaux ha accettato di sedersi a un tavolo comune insieme a Gloria Napolitano, 16 anni, studentessa del Primo Liceo Artistico di Torino, Chiara Sed, 20 anni, studentessa di Medicina alla Sapienza e Silvia Grasso, 29 anni, specializzanda in Filosofia a Pavia, per rispondere alle domande delle ragazze e per condividere con loro una storia che ci riguarda tutte.

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Aborto clandestino, migliaia di donne ancora oggi rischiano la vita
4/12/2019

Nel libro racconta un groviglio di emozioni relative all’evento, sue e influenzate dal comportamento delle altre persone. Pensa che sia stato più grande il dolore prima e durante l’aborto o il sollievo successivo?
«Ritengo che i due dolori siano assolutamente connessi perché occorre comprendere che il periodo che intercorre dal momento in cui si apprende di essere incinta al momento dell’aborto è una sorta di corridoio, un corridoio cieco in cui nessuno sa cosa troverà alla fine, una sensazione che ti fa sentire peggio che all’inferno.
Il passaggio successivo ti dà l’impressione di avercela fatta, di essertela cavata, provi semplicemente sollievo. Non so onestamente cosa sia peggiore tra i due momenti».

Che valore ha avuto per lei questo evento a confronto col resto della sua vita?
«Questa è una domanda molto complessa. Possiamo tranquillamente dire che questo evento ha cambiato profondamente la mia vita e mi ha dato la possibilità di essere più consapevole di che cosa significhi veramente avere un corpo di donna. Prima di questo momento non ne avevo la piena consapevolezza. Questo evento ha inoltre modificato completamente il mio punto di vista e la mia prospettiva sulla vita. Ho toccato nello stesso momento la vita e la morte e questo mi ha fatto velocemente evolvere da una ragazzina a una adulta».

Lei crede che le donne soffrano, esperiscano il proprio dolore fisico, come gli uomini o in modo diverso? E quali implicazioni personali, sociali e politiche ha la sua posizione?
«Ritengo che le donne non abbiano assolutamente lo stesso rapporto che hanno gli uomini con il proprio corpo, soprattutto rispetto al dolore. La vita di una donna è ciclicamente costellata da eventi fisicamente dolorosi che sfuggono al nostro controllo come ad esempio l’avvento delle mestruazioni o il primo rapporto sessuale che in alcuni casi si rivela origine di sofferenza fisica e psicologica o ancora il parto. Questi sono alcuni esempi che ci fanno comprendere la diversità e il grado di comprensione del dolore perché talvolta gli uomini non capiscono il dolore delle donne forse perché su di loro mal lo sopportano».

Si parla spesso dell’aborto in termini di perdita. A lei invece cosa ha lasciato?
«Per me l’aborto è stata un’esperienza totalizzante e questo lo scrivo anche nel libro. In quel periodo si trattava di un’esperienza sociale, di un’esperienza che aveva a che vedere con la mia condizione ed è stata anche una rivelazione su che cosa rappresentasse per me l’idea di maternità. In fondo non mi era mai capitato di pensare di poter avere dei figli fino a quel momento. Mi sono poi resa conto che cosa significasse e rappresentasse essere madre, cosa che se avessi avuto la volontà di avere dei figli allora - avendo o meno subito un aborto - mi avrebbe, ad esempio, portata a pensare magari del problema di poterne avere o non poterne avere più in futuro».

La protagonista vive in completa solitudine quello che le accade come se fosse una cosa che sta succedendo solo a lei; in particolare gli uomini sono incuriositi, sedotti o indifferenti o addirittura complici nel negarle l’aiuto. Oggi qualcuno sostiene che sull’aborto è necessario dare voce a tutti, uomini compresi. Lei che ne pensa?
«In Francia, nonostante l’aborto sia legale sussiste lo stesso tipo di atteggiamento di silenzio. Tutti ne parlano vagamente e gli uomini in particolar modo se ne stanno alla larga, non vogliono saperne perché non vogliono partecipare alla scelta delle donne qua lunque essa sia. Ad esempio non accompagnano le donne in clinica o in ospedale, se la donna deve prendere la pillola del giorno dopo non sono mai presenti. Credo che invece gli uomini debbano davvero partecipare di più a tutto questo. In passato l’aborto provocava una curiosità malsana, perché l’aborto era considerato un tabù, ma un tabù affascinante, un atto talmente pericoloso che, appunto, arrivava al punto di affascinare. Mentre invece ora è il contrario. L’aborto è diventato un atto da banalizzare. Gli uomini non se ne occupano mai perché semplicemente pensano sia solo una faccenda da donne e che non valga la pena interessarsene. E invece penso proprio che debba essere il contrario: bisognerebbe non solo occuparsene ma parlarne e l’aborto non deve restare un tabù e soltanto una faccenda di donne».

Solo dopo l’evento la protagonista riprende a scrivere la sua tesi perché il mondo è tornato normale. Ogni scrittura è possibile solo dopo che il corpo ha smesso di imporre la sua presenza?
«Sì, scrivere così come qualsiasi altra attività della mente presuppone il silenzio del corpo. La gravidanza è, per definizione, un periodo di silenzio in cui si ripensa a se stesse, perché il ventre aumenta, il corpo viene completamente invaso e quindi l’intelletto e lo spirito si addormentano e l’anima è un po’ “dopata” come diciamo in Francia».

Prima di interrompere la gravidanza, lei era religiosa? Aveva fede? Come il suo rapporto con la religione ha influito sulle sue decisioni? E come è cambiato dopo questo evento?
«Ero cattolica praticante per abitudine e all’epoca parlai con un prete che mi disse che quello che avevo fatto non costituiva reato. Però l’esperienza dell’aborto mi ha recato quasi una forma di misticismo, come se quello che vivessi fosse così grande da essere più grande della fede stessa in Dio. La stessa sensazione la riscontro quando ascolto la Passione di San Giovanni di Bach, scorgo questo sentimento di grandezza e di sacrificio mistico che riempie ogni cosa. L’aborto mi ha fatto uscire dal “torpore mistico”, per me è stato un passaggio e rimane un passaggio molto peculiare, un passaggio che in fondo, mi ha fatto toccare il mistero della vita e della morte».

Che cosa vuol dire vedere questo libro che viene pubblicato in Italia per la prima volta dopo tanti anni, qual è il suo rapporto con il pubblico italiano e che cosa significa adesso per lei riguardare al passato, al momento in cui ha scritto il libro.
«Parlando di questo evento parlo di un ricordo perché il libro è una cosa che rimane a latere rispetto al fatto: un libro che non mi appartiene più, che non è più mio, un libro diverso rispetto a me».

C’è stata una latenza di quasi 40 anni tra l’evento e la narrazione dell’evento, come mai è passato così tanto? Esiste una correlazione tra il passare del tempo e la possibilità di narrare questa esperienza?
«Per me è una questione ancora aperta. Negli anni ’70 in Francia si è condotta una grande battaglia per ottenere la legalizzazione dell’aborto così come in Italia e mi chiedo ancora oggi quanto l’influenza del Vaticano sia forte come un tempo, così come lo era in Francia, dove ci sono ancora delle sacche di resistenza culturali al fenomeno, ma che mi sembrano minori rispetto a quelle di casa vostra».

In conclusione Annie, qual è il suo rapporto con il pubblico italiano?
«Adoro il pubblico italiano così come adoro l’Italia. Avevo anche pensato di fare un titolo ad hoc per il vostro Paese e avevo pensato a “Che guaio!”. È un’espressione che mi diverte molto».
 


*Giusi Marchetta è scrittrice e ideatrice del Tavolo delle ragazze.
Traduzione di Lorenzo Flabbi e Paolo Maria Noseda