L’inventore della commedia all’italiana, Age. Sua sorella, l’attrice Zoe Incrocci. Che sposò un regista radiofonico con lo stesso cognome della presidente del Consiglio

Adesso la verve teatrale è appena appena soffocata dalla veste istituzionale, cova sotto la cenere e sale a galla non appena si presenti l’occasione. Ma certo Giorgia Meloni, anche da premier, sul punto non è cambiata: «Siete stati così coraggiosi in altre situazioni», ha sibilato sottovoce, sarcastica, con gli occhi all’orizzonte e come parlando tra sé e sé, quando in sala stampa a Palazzo Chigi i giornalisti le contestavano avesse lasciato troppo poco spazio alle domande sulla manovra.

 

Vestita di rosso, quella volta. Anche se non più urlante come nei comizi di Vox. Una Giovanna d’Arco social, come sostiene sulla rete chi gioca sulla data di nascita forse coincidente della pulzella d’Orleans, una politica subito capace di stare al centro dell’agone, del teatro della politica. Come quella volta a Milano, conferenza programmatica di Fratelli d’Italia, in cui stette in silenzio sul palco per ben 54 secondi - in quel contesto è un’eternità - per significare quanto fosse assurdo che le si chiedesse ancora conto della maglietta nera piuttosto che delle sue proposte. Una teatralità spiccata, naturale, che ai militanti di FdI ricorda Giorgio Almirante: «Da Giorgio a Giorgia», c’è chi ha sospirato quella volta a Milano. Si sa che Almirante veniva da una famiglia di artisti e teatranti girovaghi: il padre Mario era regista e doppiatore, gli zii Ernesto, Giacomo e Luigi erano attori.

 

Ma a chi risale la presenza scenica meloniana? Qualche giorno fa, su Repubblica, Filippo Ceccarelli nel cercare un modello espressivo primigenio ha azzardato un paragone tra Giorgia Meloni e una grandissima del passato, Bice Valori. Compagna di Paolo Panelli, attrice versatile da teatro alto e rivista, doppiaggio, musicarelli e intrattenimento tv. Molto in comune con Meloni: «Stessa statura da piccoletta, stessa verve femminile, ironica e popolaresca, stessa risposta pronta e schietta, stessa risata allegra o, se necessario, sprezzante. Impressionante è la voce che nel crescendo acquista una inconfondibile cadenza romanesca».

 

C’è un’altra attrice, con caratteristiche analoghe, cui Meloni somiglia ancora di più. Il suo nome è Zoe Incrocci. Caratterista romana, una delle più note negli anni Cinquanta, attrice di teatro, cinema , televisione. Ha recitato in “Totò cerca moglie”, in “Brutti sporchi e cattivi” di Ettore Scola. Tanto doppiaggio: era la voce stridula di Lina Lamont (Jean Hagen) in “Cantando sotto la pioggia”, della servetta lamentosa Prissy (Butterfly McQueen) in “Via col vento”, di Marilyn Monroe in “Eva contro Eva”, di nonna Salice in “Pocahontas”. Tanti ruoli in televisione, da “Piccole donne”, “La cittadella”, fino a “Don Matteo”, “Il maresciallo Rocca” e “La dottoressa Giò”. Nel 1991 Incrocci vinse il David di Donatello, attrice non protagonista, per “Verso sera” di Francesca Archibugi. La somiglianza con Giorgia Meloni è spiccata. Impressionante. Quasi vertiginosa.

 

Cosa c’entra Giorgia Meloni?

 

Un link è spuntato tra fine settembre e inizio ottobre. Quando i media spagnoli hanno cominciato a scrivere della vita canaria di Francesco Meloni detto Franco, il padre di Giorgia Meloni (che se ne andò di casa quando lei aveva un paio d’anni, e che lei non ha mai più visto dal 1988), una vita da film tra isole, trasferimenti in barca, un ristorante chiamato Marques de Oristano probabilmente ispirandosi alle origini sarde, la condanna a nove anni di galera per narcotraffico e due candidature alle elezioni locali: ebbene i giornali come El Mundo, ma anche nella Gazzetta ufficiale Spagnola (Boe) lo hanno indicato come Francesco Meloni Incrocci. In Spagna si utilizza nei documenti ufficiali anche il nome della madre - riforma che per ironia della sorte in Italia non ha mai attecchito, fra l’altro con l’argomento (maschilista) che avrebbe rovinato gli alberi genealogici.

 

Ecco dunque spuntare un altro ramo: Incrocci. Nel 1937, Zoe Incrocci, appena ventenne, sposò a Roma Giovanni Meloni detto Nino, nato a Ghilarza in provincia di Oristano, vent’anni più di lei, personaggio di primissimo piano nel mondo dello spettacolo di quegli anni. All’epoca lui dirigeva il teatro universitario di Roma dei Guf, avrebbe avuto un ruolo sempre più importante dal dopoguerra in poi. Regista radiofonico, punto di riferimento per prosa, rivista e teatro in radio. Premiatissimo, cercatissimo, ebbe la Maschera d’argento nel 1954 (nello stesso giorno Gina Lollobrigida presentava “La Romana” alla Mostra del cinema di Venezia) lavorava con Garinei e Giovannini e altri pezzi grossi, perfettamente inserito nell’universo favoloso e interconnesso che si stendeva tra via Veneto e Cinecittà, passando per la Rai-Eiar.

 

Un personaggio che ne metteva in contatto altri, da questo punto di vista somigliante a Vittorio Veltroni. Meloni e Veltroni, entrambi premiati con il Microfono d’argento in quegli anni, si conoscevano peraltro abbastanza bene. Alighiero Noschese raccontando i propri esordi, avrebbe spiegato che era stato proprio il padre di Walter Veltroni, all’epoca direttore del giornale radio, a dirottarlo sullo spettacolo: da redattore della radio, infatti, ogni volta che tornava dalle assemblee parlamentari dilettava i colleghi, più che con le cronache, con le imitazioni di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Parri. Raccontò Noschese al Corriere d’Informazione, il 3 marzo del 1978: «Un giorno Veltroni mi consigliò a un regista radiofonico, Nino Meloni. “Sei più tagliato per fare la rivista che il giornalista”, mi disse». Intuizione corretta: Noschese finì nella commedia “Caccia al Tesoro” di Garinei e Giovannini e non tornò più indietro.

 

Nino Meloni, per suo conto, è personaggio chiave di tante carriere. Anche Nino Manfredi, nel 1987, avrebbe raccontato che nei primi anni di carriera, tra gli stenti, aveva svoltato così: «Grazie a Nino Meloni scoprii la radio, via Asiago. E il doppiaggio. Se no, come andavo avanti? Il cinema non mi voleva».

 

Era la stagione in cui l’Italia, dall’elenco mussoliniano scolpito all’Eur sul Colosseo Quadrato che la descriveva come un «popolo di poeti, artisti, eroi, di santi, pensatori, scienziati, navigatori, di trasmigratori» diventava anche un popolo rutilante e ruspante di arricchiti, di cinematografari, di attori, di scrittori, di cialtroni. Di inventori di mondi. Il popolo insomma della commedia all’italiana, magnificamente messo in scena, in quegli anni, da una coppia regale di sceneggiatori: Age e Scarpelli. Gli autori di cosette come “I soliti ignoti”, “L’armata Brancaleone”, “La grande guerra”, “I mostri”, “C’eravamo tanto amati”, “La terrazza”, “Romanzo popolare”, “In nome del popolo italiano”, “Straziami ma di baci saziami” e di almeno un altro centinaio di pellicole fondamentali nella storia del cinema italiano. Che c’entrano i due? Age era Agenore Incrocci, fratello minore di Zoe, che era nata a Roma due anni prima di lui.

 

Una vita non sempre fortunatissima, quella di Zoe. Sarebbe rimasta vedova nel 1960, il marito Meloni stroncato da un infarto mentre leggeva un copione coi suoi collaboratori in casa, proprio nel giorno in cui Fanfani inaugurava il tratto Firenze-Bologna dell’Autostrada del Sole. «Zoe Incrocci ferita in un incidente d’auto», riportano le cronache nell’agosto di quell’anno: era in vacanza in Spagna, con quattro dei suoi figli. Ma madre alla fine di sette: «Gemma, Paolo, Franco, Mario, Guido, Lellina e Raffaele», così come compaiono insieme con «le nuore e tutti i nipoti» su La Repubblica, nel necrologio che il 7 novembre 2003 ne annunciava il funerale nella chiesa di Santa Chiara a piazza dei Giuochi Delfici, la parrocchia della Camilluccia dove Giorgia Meloni ha passato i suoi primissimi anni di vita. Prima di trasferirsi, dopo l’incendio della casa a Roma nord che ha più volte raccontato, nel quartiere della Garbatella con la madre e la sorella. E di rompere con tutto il mondo della famiglia paterna, a un punto che si fatica persino a immaginarli parenti.

 

Zoe Incrocci avrebbe continuato tutta la vita a recitare: ha una parte iconica anche in “Pinocchio”, dove recita Lumachina, accanto alla fata Turchina Gina Lollobrigida, zia di quarto grado di Francesco Lollobrigida, oggi ministro della Sovranità alimentare nel governo Meloni. Regista di quella serie era Luigi Comencini, che con Age e Scarpelli aveva fatto “Tutti a casa” e “La donna della domenica”, e che come si sa è il nonno di Carlo Calenda.

 

Martedì scorso, dopo due ore di colloquio con la premier, uscendo da Palazzo Chigi il leader di Azione ha raccontato alla Stampa: «Sento il fascino della storia di Giorgia Meloni. È quella che lei ha raccontato più volte: una donna che nasce in una famiglia non privilegiata, con una vita difficile e che ce la fa da sola. La chiami “chimica” se vuole». La storia di una «underdog», come Meloni ama definirsi. Con mezza storia del cinema italiano ad aleggiare fantasmaticamente sulla testa, però. Un po’ di chimica è il minimo, in effetti.