Per frenare l’inflazione serve un rialzo dei tassi, che però finirebbe per rallentare ancora di più la crescita. Così la Bce prende tempo e all’orizzonte si profila l’incubo della stagflazione: stagnazione economica e rincari

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Poco più di un mese fa, nel suo intervento al Forex, l’annuale convegno considerato una sorta di Stati Generali della finanza nazionale, Ignazio Visco aveva disegnato un quadro all’insegna della crescita per l’economia italiana. «Dobbiamo cominciare a pensare a un futuro da consolidare e al quale tutti dobbiamo partecipare con ottimismo», si era sbilanciato il governatore della Banca d’Italia, che per il 2022 prevedeva un aumento del Pil del 4 per cento.

Parole che risalgono al 12 febbraio scorso. Quel giorno, a ben guardare, più di un’ombra già si allungava su una ripresa in fase di vistoso rallentamento dopo lo scatto della seconda metà del 2021, quando grazie ai vaccini la pandemia aveva allentato la sua morsa sull’Europa. Le tensioni sui prezzi delle materie prime, a cominciare da quelle energetiche, e le strozzature nelle catene di fornitura globale, con pesanti ritardi nelle consegne da parte delle imprese, amplificavano dubbi e incertezze degli analisti sulla tenuta della crescita. L’invasione russa dell’Ucraina, scattata il 24 febbraio, ha dato il colpo di grazia a ogni residuo ottimismo. E lunedì 14 marzo, al termine della riunione dei ministri delle Finanze della Ue, il commissario all’Economia Paolo Gentiloni non ha potuto fare a meno di prendere atto dell’evidenza. E cioè che la crescita del 4 per cento prevista per quest’anno da Bruxelles «non è più realistica».

 

Per tradurre in concreto i numeri degli economisti basta pensare ai sempre più frequenti stop produttivi nelle aziende dove è maggiore l’impatto dei costi dell’energia, come, per fare qualche esempio, quelle legate alla lavorazione dell’acciaio, della carta o della ceramica. Tutte imprese già colpite a partire dall’autunno scorso dall’aumento di gas ed energia elettrica e che ora devono far fronte ai nuovi aumenti innescati dalla guerra scatenata da Vladimir Putin. Nel frattempo, si è fatta ancora più complicata la situazione nella logistica, anche per lo stop nel flusso di materie prime come alluminio, platino e nickel, e semilavorati indispensabili per la produzione in alcuni settori come quello automobilistico. Alle difficoltà di approvvigionamento di semiconduttori che già nelle settimane scorse avevano imposto rallentamenti e chiusure temporanee a più di uno stabilimento, compresi, in Italia, quelli di Stellantis, si è aggiunta adesso la scarsità di componenti provenienti da Ucraina e Russia che ha portato a chiusure forzate di alcuni impianti in Germania e nell’Est europeo di Volkswagen, Skoda e Audi.

 

Si naviga a vista, quindi. L’incertezza sull’esito e la durata della guerra, così come sui reali effetti delle sanzioni contro il regime di Putin, obbliga governi e banche centrali sulle due sponde dell’Atlantico a muoversi con estrema cautela, quasi a tentoni, nel tentativo di elaborare una linea d’intervento capace quantomeno di contenere i danni di una crisi che secondo i calcoli degli analisti della banca d’affari Goldman Sachs potrebbe costare, per effetto dei soli aumenti di gas e petrolio, almeno l’1,2 per cento di Pil per gli Stati dell’Eurozona, con Germania e Italia tra i più colpiti a causa della loro dipendenza dal metano russo.

 

Messi di fronte alla prospettiva concreta di una nuova frenata dell’economia, con ripercussioni certe sull’occupazione e sulla tenuta sociale di paesi già molto provati dalla pandemia, i banchieri della Bce non hanno comunque rinunciato a correggere in senso meno espansivo la politica monetaria dell’Eurozona. Nella riunione del consiglio direttivo del 10 marzo la banca di Francoforte ha confermato la riduzione degli acquisti di titoli obbligazionari (in massima parte titoli pubblici) che andranno a esaurirsi entro il terzo trimestre dell’anno. Va ricordato che questi acquisti, insieme al taglio sotto zero dei tassi d’interesse, hanno consentito ai Paesi europei di fronteggiare la recessione da Covid con un aumento senza precedenti della spesa pubblica.

 

Una volta rientrata l’emergenza virus, la strada segnata era quella del ritorno alla normalità, ma la Bce si trova adesso costretta a fronteggiare un doppio rischio: da una parte l’inflazione innescata dal rincaro delle materie prime, anche agricole, e dall’altra un netto rallentamento della crescita economica. Quest’ultima andrebbe affrontata a colpi di stimoli monetari, quindi senza smantellare completamente l’impalcatura eretta durante la pandemia. Francoforte però teme che continuando a pompare liquidità nel sistema allo stesso ritmo del recente passato, si finirebbe per fornire nuovo combustibile all’inflazione che andrebbe così fuori controllo. Ecco perché il 10 marzo si è deciso di frenare sugli acquisti di titoli in vista di un possibile aumento dei tassi d’interesse, una misura, quest’ultima, che è stata rinviata a un non meglio precisato futuro.

 

La Bce si è quindi dimostrata più prudente rispetto alla Bank of England e alla Fed statunitense che invece hanno già programmato una serie di aggiustamenti al rialzo dei tassi nell’arco dei prossimi mesi. Molti analisti però ritengono che nell’incertezza su quale sia il nemico da affrontare per primo, le autorità monetarie e i governi finiscano per essere costretti a fare i conti con la stagflazione, cioè una fase di stagnazione economica accompagnata da una crescita sostenuta dei prezzi che provoca un ulteriore impoverimento delle famiglie. I dati aggiornati a febbraio, gli ultimi disponibili, segnalano che l’inflazione in Italia è già arrivata al 5,7 per cento su base annua (5,8 per cento la media dei Paesi dell’area euro), contro il 4,8 per cento di febbraio e il 2,5 di settembre dell’anno scorso, ma è quasi certo che nel mese di marzo ci sarà un nuovo consistente rialzo. Lo scenario più pessimistico tra quelli elaborati dalla Bce prevede che l’incremento si spinga fino al 7,1 per cento nel 2022, per poi scendere fino all’1,9 per cento entro il 2024.

 

Sono previsioni che lasciano il tempo che trovano, come dimostra l’esperienza degli ultimi anni, segnati da una serie di eventi eccezionali che hanno costantemente spiazzato i politici e i banchieri. L’unico fatto certo è che su questi numeri si gioca il consueto confronto tra falchi e colombe, alla Commissione Ue di Bruxelles e ai piani alti della Banca centrale europea. I Paesi nordici premono per prendere di petto le minacce inflazionistiche con una stretta immediata della politica monetaria. L’Italia, insieme agli altri Paesi ad alto debito pubblico come Francia e Spagna, chiede che gli interventi vengano rimodulati alla luce delle mutate condizioni dell’economia.

 

All’orizzonte incombe anche la minaccia di bancarotta per lo Stato russo. Difficile che si scateni un’onda di instabilità globale come quella del 1998, quando il default di Mosca innescò tra l’altro il clamoroso fallimento del fondo speculativo Ltcm che costrinse la Fed a intervenire per evitare crack a catena a Wall Street e altrove. Sui mercati finanziari, le preoccupazioni degli investitori sembrano per ora rivolte verso le banche più esposte verso aziende attive in Russia. Si spiega anche così il ribasso di oltre il 30 per cento tra la metà di febbraio e la metà di marzo per i titoli di Unicredit, il gruppo creditizio italiano maggiormente impegnato nel Paese messo alle corde dalle sanzioni internazionali. Anche se le possibilità di un terremoto globale appaiono remote, l’instabilità provocata dalla guerra e i probabili interventi sui tassi delle banche centrali britannica e statunitense hanno già avuto effetti visibili sul mercato delle valute. Masse enormi di denaro si sono spostate dall’euro in direzione di investimenti ritenuti più sicuri e convenienti in franchi svizzeri e soprattutto in dollari. Infatti, la moneta Usa si è rivalutata del 3 per cento circa nell’arco di un mese su quella europea rafforzando un trend partito nella primavera dello scorso anno. Ancora più vistoso l’impatto della guerra sui titoli di stato italiani. Il rendimento del Btp a 10 anni che sei mesi fa navigava intorno allo 0,6 per cento, a metà marzo ha superato quota 1,9 per cento. Non è un bel segnale per un Paese come l’Italia che deve pagare gli interessi su un debito pubblico che a dicembre 2021 ha raggiunto i 2.678 miliardi, 105 in più rispetto a dodici mesi prima.