La situazione internazionale sembra riportare le lancette a quanto accadde 50 anni fa. E per questo ci sono alcune analogie con quel periodo che è meglio considerare

L’intreccio tra economia e crisi politico-militare esploso con l’invasione dell’Ucraina ci riporta agli anni Settanta, il decennio della Grande inflazione. Nel ’73, a supporto della guerra del Kippur di Siria ed Egitto contro Israele, i paesi arabi dell’Opec colpirono l’Occidente filo-israeliano con l’embargo dell’export di greggio, e il prezzo al barile passo da 3 a 11 dollari. Nel ’79 arrivò il secondo shock petrolifero, in seguito alla rivoluzione islamica in Iran e a un’altra guerra, tra il gigante Sciita e l’Iraq: il prezzo del greggio triplicò e superò i 30 dollari. Siamo lontani, per ora, dal vertiginoso aumento del costo della vita che prese piede in quel periodo, ma comunque il prezzo del gas ha visto un incremento del 500 per cento in pochi mesi e ci sono alcune analogie che è utile considerare.

 

Una riguarda il comportamento tenuto cinquant’anni fa dalla Fed, la Federal Reserve degli Stati Uniti, simile a quello attuale della Bce, la Banca centrale europea. Entrambe appaiono improntate a prudenza e gradualità nell’affrontare l’impennata dei prezzi (viceversa, in questo momento la Fed ha annunciato provvedimenti restrittivi più rapidi e incisivi per frenare l’inflazione). In un documento della primavera del ’71 dell’Fomc, Federal Open Market Committee, organo decisionale della Fed presieduta da Arthur Burns, si legge che, a proposito dell’aumento costi delle materie prime «bisogna capire se la politica monetaria possa agire in qualche modo per combattere un persistente tasso d’inflazione (…) La risposta è negativa (…) I continui aumenti dei costi sono un problema strutturale, non è trattabile con misure macroeconomiche».

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Otto anni dopo, nel ’79, con il greggio dieci volte più caro e un tasso d’inflazione triplicato (dal 4 al 12 per cento), il briefing dell’Fomc, presieduto da William Miller, successore di Burns, riferiva a riguardo che gli «sviluppi di quest’anno, in particolare i prezzi dell’energia, le discontinuità nella produzione e un’inflazione dei prezzi alimentari maggiore del previsto (…), non sembra esservi molto che la sola politica monetaria possa fare per ottenere significativi miglioramenti nel giro di un anno o due».

 

Com’era possibile che il vertice della più potente banca centrale del mondo pensasse di non poter far molto per combattere l’inflazione, tradendo il mandato di salvaguardare la stabilità dei prezzi e il valore della moneta? La ragione stava nella causa principale dell’inflazione. Il trasferimento dell’aumento dei costi delle materie prime sui prodotti finiti genera una riduzione della domanda. Le imprese si trovano a fronteggiare costi più alti e domanda più bassa, con la conseguenza di dover ridurre produzione e occupazione - la cosiddetta stagflazione. Basta ascoltare ogni giorno le preoccupazioni di famiglie, imprese, commercianti per capire che è proprio ciò che stiamo vivendo oggi.

 

Una stretta monetaria è la soluzione? Meno credito e tassi d’interesse più alti non farebbero altro che amplificare la contrazione della domanda. Per abbattere l’inflazione in questo modo, si domandavano Burns e Miller, quanto grande dovrebbe essere la caduta complessiva dell’attività economica, e quindi del fabbisogno di materie prime, per raffreddarne i prezzi sui mercati internazionali?

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Nell’autunno del ’79 Jimmy Carter sostituì Miller con Paul Volcker al vertice della banca centrale. Volcker abbandonò dubbi e prudenze dei predecessori, legando il proprio nome alla terapia d’urto monetaria che piegò il tasso d’inflazione fino al 4 per cento registrato nell’82 (Volcker disinflation).

 

I sostenitori della svolta restrittiva, guidati dal leader della scuola monetarista Milton Friedman, promettevano un arresto rapido della spirale inflattiva, senza infliggere pesanti perdite di produzione e occupazione. Le cose andarono diversamente. La disinflazione richiese tre anni durante i quali il tasso d’interesse sui fondi federali, con paurose oscillazioni, raggiunse il massimo storico del 22 per cento nell’82, l’economia cadde in due recessioni e il tasso di disoccupazione salì dal 6 all’11 per cento. L’instabilità finanziaria non fu da meno e si trasmise rapidamente al resto del mondo. Le prime vittime dell’alto costo del denaro (e del dollaro) furono i governi di diversi paesi in via di sviluppo, soprattutto latinoamericani, che dichiararono bancarotta.

 

Tornando al presente, lo shock dei costi energetici sta colpendo i paesi avanzati dopo un decennio di bassa crescita e inflazione. Prima dello scoppio della guerra russo-ucraina si prevedeva per questo semestre il ritorno ai livelli di pil del 2019, quando l’inflazione era sotto il 2 per cento. A fine 2021, l’indice dei prezzi dei beni di consumo al netto degli energetici segnava più 2,2 per cento.

 

L’indebitamento, pubblico e privato, è ai massimi, e in uno scenario alla Volcker i paesi ad alto debito, in primis il nostro, probabilmente farebbero la stessa fine dei sudamericani degli anni Ottanta, mettendo a repentaglio l’esistenza dell’euro. Dunque, che Lagarde condivida i dubbi di Burns e Miller non è per nulla stupefacente né riprovevole. Ma ora, la guerra moltiplicherà le forze della stagflazione, e la lezione americana degli anni Settanta è che, se prende piede l’aspettativa che la corsa dei prezzi sia senza freno in tutti i settori, trasformandola in una rincorsa anche dei salari, il tempo della prudenza si esaurisce rapidamente. 

 

Roberto Tamborini, docente Macroeconomia Università di Trento