Inchieste
4 marzo, 2022

Parlamentari, businessmen, ex ministri e mercenari: ecco la galassia di Putin in Italia

I filorussi nostrani non sono stati sorpresi dall’invasione. Fino alla vigilia del conflitto hanno suonato la grancassa dell’espansionismo di Mosca con convegni e conferenze persino a Montecitorio. E l’impegno pro Kiev di Meloni, Salvini, Berlusconi li ha solo mandati in immersione rapida

Politici, diplomatici di incerta collocazione giuridica, informatori e disinformatori, seguaci del filosofo Alexander Dugin e orfani dell’ex corrispondente da Mosca Giulietto Chiesa, fascisti o comunisti ma sempre fedeli alla linea del Cremlino. I fiancheggiatori del putinismo all’italiana stanno accusando il contraccolpo di una guerra avversata dall’Europa, compatta come poche volte nella storia. I profeti delle aree di influenza russa a spizzichi e bocconi, a Lugansk, a Donetsk, in Abkhazia, in Ossezia del Sud, in Transnistria, non sono stati colti di sorpresa dall’escalation del Cremlino culminata nell’aggressione del 24 febbraio.

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La tournée sovranista in nome di Dugin, tra massoni, neofascisti e plurindagati
20/11/2019

I più esposti si sono inabissati poco prima dell’attacco, come nel film “Caccia a ottobre rosso”, senza bisogno di ricevere l’ordine esplicito di Matteo Salvini o di Giorgia Meloni, che hanno fatto blocco contro l’invasione dell’Ucraina.

Il deputato leghista Vito Comencini da mesi si spende solo per i suoi concittadini veronesi in difficoltà nel Donbass. Intuito o informazioni? L’Espresso non ha ricevuto risposta dal parlamentare.

Maurizio Marrone di Fdi, oggi assessore alla Cooperazione internazionale della giunta piemontese, ha costituito il consolato del Donetsk a dicembre 2016 presso la Fondazione Magellano dell’ex consigliere forzista Angelo Burzi, suicida prima di Natale dopo la condanna per Rimborsopoli, e insieme a Gianna Gancia, attuale europarlamentare leghista. Da giorni Marrone non reagisce agli attacchi dei battaglieri radicali che vogliono riportarlo allo scoperto sulle enclave del Donbass riconosciute da Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina e sostenute con vigore da Marrone. In nome della denazificazione? Possibile, nonostante i precedenti di estrema destra dell’assessore. Anche da lui, L’Espresso non ha ricevuto risposta.

L’altro consolato italiano del Donbass, quello del Lugansk, è finito in un’inchiesta della procura di Messina, che ha coinvolto Daniele Macris, insegnante contestato per avere invitato Dugin a tenere un ciclo di conferenze fra Sicilia e Calabria nel 2019. La procura dello Stretto guidata da Maurizio De Lucia ha messo sotto inchiesta Macris e ha chiesto l’arresto di Giuseppe Russo, Pino il mercenario, finito a combattere nel Donbass dove da tempo si è spostato un altro latitante italiano, Andrea Palmeri, ex leader dei Bulldog, gli ultras della Lucchese. Macris si dichiara estraneo ai fatti e Palmeri dice di stare poco bene e di avere deposto le armi.

E mentre Mark Zuckerberg censura i profili social di Sputnik e di Rt (ex Russia Tv) creando l’ennesima migrazione sui canali di Telegram, la piattaforma del miliardario russo cresciuto a Torino Pavel Durov, su Facebook rimane disponibile la pagina italiana dell’Ossezia del Sud. Gli animatori del profilo social sono alcuni reduci di Pandora tv, che ha chiuso i battenti dopo la morte del suo fondatore Chiesa nel 2020, e il sedicente ambasciatore dell’Ossezia del Sud Mauro Adolfo Murgia, attualmente a Mosca dopo avere nominato una quindicina di consoli onorari dell’enclave occupata dai russi in territorio georgiano.

A febbraio del 2021 la sede diplomatica abusiva di Roma è stata replicata a San Marino dove l’ambasciatore è Francesco Palmieri, procuratore della Spec aviation nominato da Dmitri Medoev, ministro degli Esteri di Stalinir, come è tornata a chiamarsi la capitale dell’Ossezia del Sud in omaggio al dittatore sovietico di origini georgiane.

L’eccezione più recente alla politica del sommergibile è stata quella dell’ex grillino Matteo Dall’Osso, oggi deputato forzista. Il 9 febbraio Dall’Osso ha organizzato a Montecitorio un convegno dal titolo “Il diritto dell’autodeterminazione dei popoli: Abkhazia e Grande Europa”. La cronologia mostra un’incredibile scelta di tempo: quindici giorni prima dell’invasione, una settimana prima che il presidente Usa Joe Biden lanciasse l’allarme sull’imminenza di un attacco all’Ucraina e sei giorni prima dell’incontro fallito fra Putin e il cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Il 9 febbraio la protesta dei georgiani, preoccupati di essere i prossimi nel menu à la carte del democratore russo, è stata immediata con una nota alla Farnesina che ha scatenato le ire di Roberto Fico, presidente della Camera. Valentino Valentini, presidente forzista della Commissione esteri e putiniano ante marcia su Kiev, è stato costretto a sconfessare il compagno di partito con un comunicato senza mezzi termini sul convegno. «Specifichiamo che si tratta di un’iniziativa strettamente personale dell’on. Dall’Osso, che non rispecchia né la posizione dell’Italia né tantomeno di Forza Italia. Sosteniamo fermamente l’integrità territoriale e la sovranità della Georgia e non riconosciamo le autorità de facto delle regioni dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, né i loro rappresentanti, con i quali non riteniamo opportuno intrattenere contatti». Per Valentini, habitué dei circoli che contano fra Mosca e San Pietroburgo, è un contrappasso spietato ma non letale, come le armi europee che il putiniano corretto Salvini vorrebbe mandare al fronte affinché nessuno si faccia male e che il grillino Vito Petrocelli, presidente della commissione esteri del Senato, non vorrebbe mandare affatto.

Meno pubblicizzato, perché fuori da una sede istituzionale, ma più profetico è stato l’incontro veronese del 18 dicembre 2021, dedicato all’escalation nel Donbass. Nella conferenza aperta dai saluti di Comencini e Marrone, i portavoce italiani dell’espansionismo putiniano erano presenti con Palmarino Zoccatelli, presidente dell’associazione Veneto-Russia, calco di Lombardia-Russia fondata dall’uomo dell’hotel Metropol Gianluca Savoini, Edoardo Rubini di Europa Veneta, Luca Pingitore, giornalista free lance e console dell’Ossezia del Sud per la Toscana, Luciano Lago, analista geopolitico che spazia dal Venezuela all’Iran sulle piattaforme Controinformazione e Byoblu dell’ex M5S Claudio Messora. Non ultimo c’era Eliseo Bertolasi, interprete e pubblicista che nell’autunno 2014, sei mesi dopo la crisi militare in Crimea, ha guidato un entusiasta Salvini nella sua visita a Mosca, replicando l’anno dopo con un viaggio studio nel Donbass a beneficio dei putiniani della destra affarista lombardo-veneta. Da quell’esperienza è nato il libro “Donbass, una guerra nel cuore dell’Europa” pubblicato dall’editore fiorentino Passaggio al bosco con postfazione di Dugin.

Un altro dei conferenzieri di Verona, Stefano Vernole del centro studi Eurasia Mediterraneo, consulente del governo gialloverde per i rapporti con la Cina, coinvolto in un dossieraggio verso il sindaco Pd di Carpi e oggi collaboratore in quota Lega della Regione Emilia Romagna, ha tenuto una relazione dal titolo “Effetto domino su un conflitto congelato”. Ecco un passaggio della sua analisi: «Se la Russia dovesse dare il via libera al ricongiungimento delle regioni russofone ucraine, a quel punto le converrebbe aprire il vaso di Pandora degli altri conflitti congelati: annessione immediata della Transnistria dopo aver liberato Odessa e permesso il suo collegamento con il Donbass, dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Non a caso, il Cremlino ha intimato agli Usa di non allargare la Nato alla Georgia».

Lette dopo l’invasione, sono parole agghiaccianti tanto che Comencini, molto vicino all’altro veronese Lorenzo Fontana, vicesegretario nazionale della Lega, ha dovuto cambiare bersaglio per disciplina di partito. Adesso nel suo mirino c’è la minaccia dei comunisti cinesi a Taiwan, benché i rapporti fra Xi Jinping e il Cremlino siano in una fase di intesa cordiale. L’unico strappo alla regola il deputato leghista se lo è concesso il 24 febbraio, nelle prime ore dell’invasione, con un’intervista a Sputnik Italia dove dichiara all’intervistatore Bertolasi che «il riconoscimento delle repubbliche del Donbass è l’esito del fallimento degli accordi di Minsk».

Fra i colpiti dagli effetti collaterali del putinismo c’è anche Franco Frattini, deputato di Fi-Pdl, ex ministro degli Esteri nei governi Berlusconi II e IV e commissario europeo con José Barroso.

L’amore imprevisto sarebbe scoppiato nel cuore del fervido atlantista a gennaio del 2018, poco prima delle elezioni politiche, quando Frattini è stato nominato dal suo successore Angelino Alfano rappresentante speciale per la Transnistria durante la presidenza italiana dell’Osce, l’organismo europeo per la sicurezza e la cooperazione. L’enclave più occidentale dell’influenza russa, proiettata verso il territorio rumeno, è nota al pubblico calcistico per le imprese in Champions league dello Sheriff Tiraspol, club finanziato da Viktor Gusan, imprenditore con passaporto ucraino formatosi al business nel Kgb.

«Su Ucraina, Libia e Sahel l’Italia bussi al Cremlino», aveva detto Frattini che lo scorso gennaio ha fallito la scalata al Quirinale dopo che un perfido Matteo Renzi aveva sottolineato criticamente la svolta russofila dell’ex capo della diplomazia.

Proprio Renzi, che dopo l’attacco del 24 febbraio si è dovuto dimettere dal cda della russa Delimobil, dimostra che oggi non si può più tenere il piede in due staffe, se una staffa è made in Moscow. È passata una vita dal settembre del 2010 quando, due anni dopo l’invasione della Georgia, il premier Silvio Berlusconi rivelava alla comunità internazionale il suo ennesimo miracolo. «Putin mi aveva rivelato le sue intenzioni di attaccare Tbilisi. Voleva letteralmente appendere per il collo il presidente georgiano Saakhasvili. Se ciò fosse accaduto, sarebbe stata la guerra tra Russia e Occidente ed è merito mio se le cose sono andate diversamente». Meno male che Silvio c’era. 

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