“Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”.
Anton Pavlovic Cechov
Si può essere contro la proliferazione delle armi e contemporaneamente essere a favore della loro vendita all’Ucraina? Si può. Tra le due questioni passa la stessa differenza che esiste tra la cura di lunga durata e il pronto soccorso.
Non da oggi nel mondo c’è una corsa al riarmo che coinvolge anche l’Italia (leggi articoli precedenti). Il catalogo non esclude le bombe nucleari e riguarda le grandi come le medie e piccole potenze, tutte tese ad un aumento delle spese belliche. Il conflitto in Europa dilata la febbrile crescita degli arsenali rendendo ancora più pericoloso un pianeta che sembra finito fuori controllo, tanto da far rimpiangere la Guerra Fredda o almeno la sua ultima fase, quando la ragionevolezza orientò verso un disarmo bilanciato. Dopo la caduta del Muro di Berlino ci fu addirittura chi profetizzò la fine della storia, l’arrivo dell’era della pace perpetua. Tutto vanificato dalla dinamica geopolitca attuale con la ridefinizione dei rapporti di forza e la crescita a dismisura di faglie di frattura, contenziosi, ricerca di spazi vitali e di aree di influenza. Da imporre con la forza.
Coniugata sulla scala globale, la famosa frase di Cechov suona come una sirena d’allarme. La letteratura imita la vita, spesso la precede. La pistola di un romanzo, o di una pièce teatrale, diventa missile, cannone. E se ci siamo consolati perché sinora l’atomica è stata l’eccezione che conferma la regola, l’evocazione dell’atomica da parte di Vladimir Putin ha rotto il tabù dell’indicibile mentre il nucleare tattico negli zaini dei comandanti di campo amplifica le possibilità del loro uso. Che avrebbe pur effetti in un’area limitata, ma aprirebbe la strada a ordigni più devastanti e letali. I cinque continenti sembrano aver adottato, e con grande solerzia, il detto latino si vis pacem para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra, e magari fosse solo il desiderio di stabilire un equilibrio nel terrore per tenere in stallo cattive intenzioni. Basta scorrere l’elenco degli acquirenti per legittimare il sospetto della tentazione del primo colpo. Dopo il quale niente è più lo stesso.
Nelle ore più buie dei conflitti recenti, persone volenterose chiamavano alla semina della cultura della pace. La parola semina contiene in sé l’idea del tempo lungo prima del raccolto. Non si è seminato bene, di tutta evidenza, eppure non è mai troppo tardi. Certo con molti ostacoli da superare, il perenne ricatto occupazionale dei produttori d’armi con la loro lobby in grado di influenzare i meccanismi decisionali nelle democrazie e figurarsi nelle democrature o nelle dittature, la catena di profitti che passa dai trafficanti ai consumatori finali, i mutui interessi nazionali (ad esempio gas e petrolio in cambio di armi) i desideri di potenza di piccoli e grandi despoti. Mentre si sente la mancanza di un organismo internazionale autorevole che possa mettere allo stesso tavolo anche i più riottosi per approdare a una moratoria universale che fermi i fabbricanti e li orienti verso la confezione di beni utili all’umanità. Un organismo che non può essere l’Onu, ridotto allo stato larvale dalla sua essenza: quella di essere un prodotto dell’esito della Seconda guerra mondiale, specchio di una storia superata dagli eventi.
Sembra utopia, quando imperversano i venti di guerra. Eppure se non ora quando? Quando cominciare con la semina, cioè la cura a lungo termine delle pulsioni belluine, se non proprio ora, prima che l’orologio batta il gong di un possibile e pernicioso Terzo conflitto generale? E dunque sarebbe il caso di convocare una nuova conferenza di Helsinki che riguardi non solo l’Europa come nel 1975 ma il mondo intero, stabilire regole chiare per regolare i rapporti tra gli Stati, varare una moratoria sulla produzione di armi dando alle industrie gli aiuti pubblici necessari per mutare la loro vocazione.
Certo, perché funzioni servirebbe che accettassero tutti gli attori, o almeno quelli fondamentali, in un’epoca in cui il nuovo dualismo vede schierate da una parte le democrazie e dall’altra i Paesi autoritari, indisponibili a riconoscere i valori dell’occidente a cominciare dai diritti umani. E dunque la semina della pace è un vasto programma, un’impresa temeraria, titanica addirittura. Che necessiterebbe di una formidabile spinta delle opinioni pubbliche, almeno di tutte quelle che possono esprimersi con un voto e dovrebbero essere il volano per innestare un circuito virtuoso e convincente per tutti i popoli della Terra. Per avviare il programma, il presupposto necessario è la sconfitta o almeno il ridimensionamento delle pretese di Vladimir Putin. E siamo al pronto soccorso. La resistenza degli ucraini, il sangue versato sinora nel tentativo di salvare se stessi e forse l’Europa, ha già raggiunto lo scopo di mostrare allo zar del Cremlino quando il suo esercito sia inadatto e insufficiente per inseguire il sogno imperiale chiaramente spiegato nel suo discorso del 23 febbraio con cui ha di fatto annunciato la marcia su Kiev. Kiev è salva grazie ai suoi valorosi difensori e alle armi fornite dall’occidente. Ma Kiev è solo una battaglia del conflitto entrato in una seconda fase dove le mire di Mosca si sono concentrate sul Donbass e sul corridoio lungo la costa del mare d’Azov che unirebbe lo stesso Donbass e la Crimea già in mano russa. L’operazione è probabilmente destinata ad avere successo e segnerebbe il raggiungimento dell’obiettivo minimo di Putin. Quando assai più difficile gli risulterebbe conquistare Odessa e la rimanente fascia ucraina del mar Nero, dove i difensori potranno usare i missili antinave promessi di Boris Johnson, oltre al resto di un arsenale ingrassato dalle generose donazioni occidentali.
Contenere Putin con l’invio di armi agli ucraini è dunque il prezzo da pagare per abbassare il livello di violenza nell’immediato, soprattutto nel futuro perché gli impedirebbe di immaginare altre fruttuose e per lui pressoché indolori campagne militari. Sarebbe anche un monito per coloro che avessero la tentazione di avventure analoghe. Creerebbe i presupposti per sedersi a un tavolo di trattative, entrambi né vincitori né vinti, per riaprire un dialogo che abbia sullo sfondo quell’idea rivoluzionaria di fermarsi e indietreggiare dall’orlo del baratro in cui ci siamo sporti. E relegare la pistola di Cechov nell’unico luogo in cui si spara a salve: la finzione teatrale.