Un docufilm su Roma. Tre film in arrivo. E tanti progetti in cantiere. Alla vigilia del suo 50esimo compleanno, che coincide con quello della Città eterna, l’attore fa i conti: col tempo, il potere, il dáimon

Edoardo Leo: «Non volevo fare l’attore ma il prof di liceo»

Appoggiati al pavimento due grandi disegni con il faccione di Gigi Proietti, su una parete la locandina di “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola e sugli scaffali i libri dei poeti più apprezzati: Giovanni Raboni, Pier Paolo Pasolini, Umberto Saba. Al centro della stanza una scrivania cosparsa di fogli di carta. «Questo è il mio ufficio. Quando non sono sul set vengo qui tutti i giorni: scrivo, lavoro al computer, leggo sceneggiature, prendo appunti, faccio incontri. Cucino per rilassarmi. Altro che artista, vivo come un impiegato», esordisce Edoardo Leo con tono serio, distante dal piglio comico dei suoi personaggi più noti: il brillante ricercatore neurobiologo (Pietro Zinni) di “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia e Renatino, lo spietato boss della banda della Magliana nella commedia “Non ci resta che il crimine” di Massimiliano Bruno. È in questo appartamento in centro a Roma, tra il Pantheon e piazza Navona, che l’attore e regista ha trovato la sua casa-laboratorio. Ora è in pieno fermento tra film in uscita nei prossimi mesi (il suo “Non sono quello che sono”, in cui è regista e attore, la traduzione integrale di “Otello” di Shakespeare in dialetto romano e napoletano), sceneggiature in lavorazione, spettacoli teatrali, progetti in cantiere. Niente male per un “late bloomer”, uno che ha avuto successo tardi dopo una lunga gavetta e adesso non vuole mollare un colpo. Alla vigilia di un compleanno molto tondo.

Il 21 aprile compirà 50 anni. Portati bene, a giudicare dal colore corvino dei capelli.
«Qualcuno mi chiede: “Ma che ti tingi?”. E io spiego che non mi sono mai tinto in vita mia. Ma siccome qualche capello bianco comincia a spuntare rispondo: “Ma se mi tingevo, secondo te lo facevo così male?”».

È tempo di bilanci?
«Non mi piace guardare indietro, 50 è un numero come un altro, 49 o 51. Non faccio nessun bilancio, né personale né artistico. Continuo a guardare avanti».

Nessun festeggiamento? Sia sincero…
«Forse farò una cena con gli amici più intimi ma nessuna festa, non sono un tipo da festa, non mi pare neanche il momento. Non avrei voluto celebrare il mio cinquantesimo compleanno dopo due anni di Covid e con una guerra in corso. In una canzone Giorgio Gaber diceva: “Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere felice solo se lo erano anche gli altri”. Quella frase me la sento addosso».

Niente bilanci, d’accordo. Ma la sua più grande soddisfazione?
«Per chi fa il mio mestiere il vero lusso è poter scegliere. In questo momento della mia vita posso decidere cosa fare del mio tempo e delle scelte artistiche, quali film fare e quali non fare. Per anni non ho potuto scegliere perché dovevo pagare affitto e bollette. È una conquista e una responsabilità».

Sogni da realizzare?
«Con il film “Lasciarsi un giorno a Roma” per la prima volta ho fatto una coproduzione internazionale. Ecco, vorrei fare dei film che abbiano un respiro europeo più ampio. E lavorare con alcuni registi con cui non ho mai collaborato: Paolo Sorrentino, Gabriele Salvatores, Paolo Virzì hanno un’idea di cinema molto forte».

In comune con Roma ha anche il giorno del compleanno. Con l’occasione esce in sala (il 19, 20 e 21 aprile) il documentario “Power of Rome”, per la regia di Giovanni Troilo, in cui lei fa da Cicerone, voce fuori campo e attore, in un viaggio attraverso le storie degli imperatori intrecciate con il presente. Cosa possiamo imparare da quella antica civiltà?
«Pensavo di conoscere molto bene la mia città e la sua storia. E invece con “Power of Rome” mi sono reso conto di essere molto ignorante. Ad esempio non avevo mai visto la Domus Aurea, una meraviglia, sono rimasto ore lì dentro. È stato un viaggio sorprendente, dopo questo excursus nelle storie degli imperatori che hanno adorato e distrutto la città ho realizzato che nei secoli non è cambiato niente. Roma è una città che continua ad avere un rapporto conflittuale con il potere. La sfiducia delle persone nei confronti della politica, il sospetto che circonda chi governa, è figlia di quella esperienza».

All’origine del mito di Roma caput mundi ci sono morti, sangue, distruzione. E guerre. Che effetto le fa il conflitto in Ucraina?
«Roma viene fondata su un fratricidio. Fondata nel sangue, più volte rinasce nel sangue. Non mi piace fare il tuttologo, ma questa guerra ravvicinata tra due popoli che fino all’altro ieri si trovavano nello stesso territorio riporta a una violenza talmente efferata che faccio fatica a comprenderla, così come alcuni fatti della storia di Roma. La guerra in Ucraina mi trasmette un senso di frustrazione, il mio cervello si rifiuta di capire come si possa sparare alla nuca di un bambino, resto imbambolato davanti alle notizie». 

Da sempre la relazione con la sua città è viscerale. Di recente è uscito il documentario “Luigi Proietti detto Gigi”, in cui racconta la vita e il segreto della comicità del grande attore. Che rapporto aveva con Proietti?
«Non ero un amico di Gigi e non ero neanche un allievo del suo laboratorio. Ci avevo lavorato tanto, mi aveva diretto a teatro: ho pensato di avere la giusta distanza per raccontarlo senza santificarlo. Malgrado lo conoscessi da trent’anni, però, non sono mai riuscito ad avere un rapporto paritario. Il timore reverenziale mi è servito per raccontarlo. Mi è dispiaciuto che abbia potuto vedere solo dieci minuti del documentario: doveva essere un omaggio di tutto il mondo dello spettacolo italiano per i suoi 80 anni. E invece quel compleanno, quel 2 novembre, è diventato il suo funerale».

Si considera un suo erede?
«Assolutamente no. Gigi ti spingeva a non imitarlo, a trovare la tua strada, a cercare il tuo demone, il dáimon dei greci. Non credo che esistano gli eredi di Proietti, ma resta meravigliosa l’eredità che ha lasciato: ha spinto diverse generazioni di attori a inseguire il professionismo. Una volta Flavio Insinna ha detto: “Bisognerebbe fare come con i calciatori, con Proietti bisognerebbe ritirare la maglia”».

La carriera di Proietti comincia a tre anni, con la recita di una poesia la notte di Natale del ’44. Come inizia la carriera di Edoardo Leo?
«Non volevo fare l’attore. Sono stato un grande spettatore, mi piaceva moltissimo andare al cinema e a teatro. Da ragazzo volevo fare il calciatore e più tardi, dopo il diploma scientifico, ho studiato Lettere all’università, volevo fare il professore di liceo. A 21 anni poi, quando mi hanno preso per fare un piccolo sceneggiato intitolato “La luna rubata”, ho visto in scena il protagonista, un attore francese, Bernard Giraudeau, oggi scomparso. Quando parlava lui stavano tutti in silenzio, in adorazione. Mi sono reso conto dell’aura meravigliosa che avevano certi artisti. Sono rimasto affascinato da questa figura e ho deciso di provare a fare l’attore».   

Come si immagina a sessant’anni?
«Spero che comincino a venirmi i capelli bianchi». 

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