Dalla Cina agli Stati Uniti, dall’India all’Europa passando per il Giappone. I budget per gli armamenti sono in clamoroso aumento ovunque

Cina, Stati Uniti, Germania, ovviamente e purtroppo Russia, ma anche India, Giappone, perfino la Svezia e in affrettato recupero l’Italia. In tutto il mondo - non senza polemiche in ogni Paese analoghe a quelle nostrane - i bilanci della difesa sono in rialzo, spesso clamoroso.

 

In Cina la spesa aumenterà nel 2022 del 7,1%: più del Pil che è previsto in crescita dopo le recenti riduzioni per “solo” il 5,5%. Si arriverà così a 229,5 miliardi di dollari, dopo che il budget era già salito del 6,8% nel 2021 e del 6,6% nel 2020. Pechino sta costruendo tre portaerei per ampliare la sua portata d’azione e ha costituito appositamente una base a Gibuti dopo essere entrata nelle grazie del piccolo Paese africano con una dotazione infrastrutturale mai vista prima.

 

Intanto, il Giappone ha alzato nel 2022 il budget militare fino a 5.400 miliardi di yen (47 miliardi di dollari), ottavo record storico consecutivo (nel 2021 erano 5.300 miliardi).

 

Negli Stati Uniti, Biden ha annunciato che la spesa salirà nel 2022 del 2% e del 7% nell’esercizio 2023 che inizia il 1° ottobre. Nel 2021 l’incremento era stato del 3,7% sul 2020 fino a 778 miliardi di dollari. Il Center for strategic and international studies di Washington ha pubblicato un report sulla tendenza in America, utile per conoscere le linee-guida per l’occidente: fra il 2015 e il 2020 la spesa per i contratti del settore (escluso quindi il personale) ha raggiunto i 421,3 miliardi di dollari, +41%. Gli acquisti di missili sono saliti del 95%, gli impegni finanziari in tecnologia assunti dalla Defense Innovation Unit del 2000%.

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La vera sorpresa arriva dalla Germania, che ha annunciato l’investimento record di 100 miliardi di euro in tre anni a partire da quello in corso: «Si andrà avanti per grandi progetti, da 35 aerei da combattimento americani al sistema antimissile israeliano Iron Dome», precisa l’economista tedesco Daniel Gros che dirige a Bruxelles il Centre for european policy studies. «Nel solo 2023 andranno a regime ordini per 50 miliardi». Nel 2021 la Germania ha speso per la difesa 56,1 miliardi, calcola il Financial Times: sarebbe lanciata per superare la Gran Bretagna (71,6 miliardi di euro il budget 2021) senonché Londra ha annunciato il 17 marzo che «aumenterà sostanzialmente», scrive il quotidiano della City, la sua dotazione di 260 testate nucleari, «in un’impressionante inversione della sua ventennale spinta verso il disarmo nucleare». Perfino la pacifica Svezia vuole aumentare del 50% entro pochi anni le sue spese militari risalendo dall’1 al 2% del Pil preparandosi il terreno per l’ingresso nella Nato: Jens Stoltenberg, segretario generale dell’alleanza, ha steso il tappeto rosso a Stoccolma (e a Helsinki) promettendo una rapida accettazione delle eventuali domande di adesione dei due Paesi scandinavi.

 

Siamo diventati tutti Stranamore? Speriamo di no, né c’è alcun compiacimento nel registrare questa tendenza in tutto il mondo. Però i fatti parlano. La guerra in Ucraina, ha funzionato da “booster” finale di una tendenza in atto da qualche tempo. Con il riarmo è scoppiata anche la corsa alle alleanze: gli Stati Uniti pur di sbloccarne la neutralità nella guerra hanno accordato a condizioni di favore 20 miliardi di forniture militari (i contratti si svolgeranno nell’arco di cinque anni) all’India, già potenza nucleare ora in ulteriore riarmo: la spesa per la difesa di New Delhi è già arrivata nel 2021 al 3% del Pil salendo da 74,3 miliardi di dollari dai 72,9 del 2020, e intende andare oltre. Simmetricamente il vicino-nemico Pakistan, che già si è dotato per imitazione dell’arma atomica, ha avviato un percorso di crescita analogo.

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Ci sono poi Paesi dove si sta modificando il diritto a costo di riaprire ferite storiche. Il Giappone a colpi di leggi speciali si sta sbarazzando del vincolo dell’1% della spesa militari sul Pil imposto nella Costituzione dal generale MacArthur dopo la seconda guerra mondiale, investendo massicciamente nella difesa e cominciando addirittura a parlare di armi nucleari.

 

La Germania si è liberata dei limiti post-bellici entrando fin dal 1955 nella Nato e conquistando progressivamente la piena titolarità fino a poter ora affrontare i ritardi in termini di efficienza. «Sarà una sorta di rimorso inconscio, ma l’esercito tedesco aveva rinunciato a una forza identitaria che ora sta recuperando», spiega il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa, che partecipò fra il 1998 e il ’99 con rappresentati di Gran Bretagna, Francia e Germania, al progetto della forza militare europea diventato ora un tema centrale. «Progettammo tra l’altro un vero e proprio Stato maggiore dell’Unione con l’obiettivo di creare un contingente di 60mila unità operativo in 15 giorni, per un periodo non superiore a un anno e un raggio di 4000 chilometri da Bruxelles. Le proposte furono approvate dal Consiglio europeo ma rimasero in larga parte inattuate. Solo ora, sulla spinta della guerra di Putin, c’è un risveglio di attenzione».

 

Punto di partenza è il Comitato militare dell’Unione presieduto dal generale Claudio Graziano, che esiste dal 2000. Ma i contrasti restano: è bastato che la Francia accennasse all’ipotesi di scorporare le spese militari dettate dall’urgenza bellica dal calcolo debito/Pil (come accadrà per alcuni investimenti connessi con la pandemia) perché Sigrid Kaag, ministra olandese delle Finanze, insorgesse: «Possiamo discutere alcune modifiche al Patto di stabilità ma inserire una clausola di tutela per le spese della difesa comporta significativi rischi alla stabilità finanziaria europea».

 

Spiega l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari Internazionali: «A questo punto è urgente che all’impegno finanziario corrispondano una razionalizzazione e un miglioramento qualitativo delle spese». Il dato di partenza, scrive su lavoce.info Raul Caruso, docente di Economia della pace alla Cattolica, è che la spesa per la difesa dei paesi Ue è in costante crescita: +25% tra il 2014 (data del vertice in Galles dopo l’invasione della Crimea in cui fu assunto l’impegno del 2%) e il 2020, anno in cui si sono raggiunti 198 miliardi, ma alcuni Paesi spendono troppo e altri troppo poco: l’Osservatorio dei conti pubblici di Carlo Cottarelli, ha calcolato che il 2% del Pil europeo (15mila miliardi di euro) significa 300 miliardi, il 30% in più della somma delle spese dei Paesi (la Russia ha speso 69 miliardi nel 2021 pari al 4,4% del Pil).

 

Ma la collaborazione europea non decolla: secondo l’Agenzia europea della difesa, nel 2020 gli Stati membri hanno speso solo 4,1 miliardi su progetti collaborativi, in diminuzione del 13% sul 2019. Per l’Italia, i vincoli di bilancio sono i soliti: 14 miliardi in sei anni, quanti se ne spenderanno secondo i nuovi piani (da 25 a 39 miliardi) per portare dall’1,22 al 2% del Pil la spesa, non sono in apparenza molti: ma c’è da investire in sanità, istruzione, giustizia. Per tali voci (non per la difesa) ci sono i fondi del Pnrr, che però non è eterno. E sempre di debiti si tratta.

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