Il rogo dopo la collisione fra la nave e la petroliera Agip Abruzzo, il 10 aprile 1991, causò 140 vittime. Ma i tre processi e l’inchiesta si sono chiusi con nessuna certezza. Ora i pm e una commissione alla Camera esaminano i reperti

Un «prima» di appena venti minuti lungo trentuno anni. Tra le 22,05 e le 22,25, da quando scende il pilota di porto fino all’impatto contro la petroliera Agip Abruzzo, tre ipotesi concorrono a rendere il viaggio del Moby Prince un disastro che tortura e uccide 140 persone. Timone «30 gradi a dritta» e in «manuale»: la sera del 10 aprile 1991, il Moby deviò improvvisamente la rotta Livorno-Olbia. Per una «terza nave», un’avaria meccanica o l’esplosione a bordo. Le aveva lasciate «aperte» la Commissione del Senato 2015/2018, al termine della demolizione, in 492 pagine, delle «verità giudiziarie» di tre processi finiti nel poco e un’inchiesta archiviata: nessuna nebbia, nessun errore dell’equipaggio, strani accordi assicurativi, depistaggi, navi in fuga, lacune investigative e l’alibi, «tanto sono tutti morti in mezz’ora», dietro al quale si nascose la catena dei soccorsi e gli interessi di una rada notturna affollata.

 

Ora la parte «costruens» è affidata al fascicolo aperto contro ignoti per strage del sostituto Sabrina Carmazzi e del procuratore capo di Livorno Ettore Squillace Greco. E alla nuova Commissione di inchiesta della Camera, istituita il 12 maggio 2021 e guidata dal deputato livornese Andrea Romano: via gli scenari più fantasiosi, diciotto consulenti lavorano sulle fonti e a quelle tre ipotesi. «Ogni pista deve aggiungere un pezzetto: terza nave? Bunkeraggio? Agip Abruzzo con le luci spente? La strage è l’esito di responsabilità singole sia in fase causale, sia in fase successiva, nell’insabbiamento», spiega: «Non c’è stata una mente criminale che ha progettato di bruciare la Moby. Il metodo pragmatico che abbiamo usato è come se ci spingesse a raffigurare piccole responsabilità, ognuna delle quali è tale, ma che sommata alle altre produce questo disastro».

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“Li hanno lasciati morire”. Dopo trent’anni la strage del Moby Prince è ancora senza colpevoli
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Devono essere ascoltati ancora testimoni. A Firenze, la Direzione investigativa antimafia con il pm Gabriele Mazzotta lavora alla perizia esplosivistica su incarico di Livorno. È affidata a Danilo Coppe, consulente nell’ultimo processo per la strage di Bologna. In parallelo, per la Commissione lavorano altri due periti ma per tutti il laboratorio è quello del Racis di Roma. Il materiale è deteriorato ma l’attenzione è sui tamponi di prova «non lavati» dall’acetone (tecnica con cui si estraggono le particelle da esaminare), ritrovati negli archivi del Tribunale di Livorno. Alessandro Massari, nel ’92 consulente Criminalpol per la Procura, scrisse che l’esplosione nei locali eliche di prua, collocabile sia prima che dopo la collisione, fu da esplosivo solido, individuando tre sostanze usate in esplosivi civili e due militari, come il Semtex H. Sentito di nuovo dalla Commissione a dicembre, ha rivelato che fino a pochi mesi prima aveva lavorato al Sismi, oggi Aise (tornandoci per un breve periodo): al primo processo fu ritenuto dal giudice «indirizzato su un complotto di tipo stragistico» dai suoi trascorsi.

 

L’Istituto di chimica ed esplosivi della Marina militare (Mariperman) invece attribuì l’esplosione ai gas conseguenti a impatto e incendio: nessuna esplosione ad alto potenziale e l’esplosivo, se c’era, non è detonato ma bruciato. L’esplosione è certa, ma non il quando e il perché la criminalità dovrebbe avere avuto voce in capitolo.

C’è la mezza voce di due pentiti di ’ndrangheta, Filippo Barreca e Francesco Fonti. L’audio registrato di nascosto nel 1992 dall’allora presidente di uno dei primi comitati dei familiari, Franco Lazzarini, potrebbe essere più la prova di tentativi di speculazione che di uno «scenario». Un malavitoso chiese due miliardi per parlare: «Mi ha detto che l’esplosivo era a bordo e ce ne era tanto, era semplicemente nascosto forse da tanto tempo, occultato, messo lì da uno della nave». «L’ipotesi dell’esplosione “antecedente” è legata non solo alla pista mafiosa ma anche all’ipotesi della truffa assicurativa: qualcuno potrebbe aver messo un piccolo ordigno a bordo della Moby», spiega Romano: «È una delle ricostruzioni circolate: provocare un piccolo danno in conseguenza del quale il traghetto avrebbe dovuto essere riparato». Un «danno» nel momento sbagliato. Nei prossimi giorni un consulente della Marina Militare relazionerà su meccaniche e possibili avarie. Tra i reperti, gli avviatori e il commutatore del timone «manuale/automatico» Fu oggetto del tentativo di manomissione di cui si autoaccusò il nostromo Ciro di Lauro. In licenza la sera del disastro, salì sul relitto insieme a un tecnico della Navarma. Vennero assolti per «difetto di punibilità».

 

Le assicurazioni strette dall’armatore invece sono al vaglio di un esperto di diritto assicurativo navale: a indagini in corso, Navarma incassò l’intera polizza di 20 miliardi, stipulata nel 1990 su un valore reale del Moby pari a sette e comprensiva di «rischio guerra», e il 18 giugno del 1991 strinse con Eni-Snam-Agip un accordo per non «incolparsi» a vicenda. La prima paga i risarcimenti per evitare rivalse, la seconda la bonifica dell’area marina. Al momento è fuori dalla ricostruzione la presenza delle sette navi militarizzate americane impegnate a movimentare materiale bellico per conto della base Nato di Camp Darby. La guerra del Golfo era finita ma iniziavano quelle nella ex Jugoslavia.

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Moby Prince, bugie al rogo
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Nel 1992 il comandante del Gico della Guardia di Finanza di Trieste, Vincenzo Cerceo, indaga su un presunto traffico di «mercurio rosso» e materiale strategico dall’Unione Sovietica all’Europa: gestirebbero Alexander Kuzin, già uomo del Kgb a Vienna e il braccio destro Daniel Abramovic, titolare in Italia della Sovit Trade. La procura di Rimini la riteneva vicina alla camorra ma trova fax in bulgaro, tedesco, francese e russo. «Il Cesis venne perché ci stavamo occupando di materiale nucleare», spiega Cerceo. Prima di essere trasferito in anticipo e l’indagine bloccata, l’uomo dell’ex organo di coordinamento dei servizi segreti che arriva, gli parlò del Moby: «C’era qualcosa che era andato male e che i servizi c’entravano, questo sì, me lo confermò. Non mi disse altro. Era un affare andato male, un’operazione che non è andata in porto ed è stata un disastro. Era una operazione a cui stavano lavorando i servizi».

 

In un diagramma nel fascicolo ex Sismi del 3 aprile 2003, “Traffici illeciti internazionali: materiale bellico recuperato, scorie nucleari ed armi”, c’è anche «l’incidente di Livorno». Gli attuali vertici di Aisi e Aise, sentiti per la prima volta dalla Commissione, hanno messo a disposizione le relazioni dell’epoca. È una novità anche che questa appuri la presenza a Livorno dell’ammiraglia della flotta italo-somala Shifco. Occupa un lungo capitolo della richiesta di archiviazione dell’inchiesta del 2010: ufficialmente in manutenzione, la notte del Moby si sposta. Sospettata di essere tra i possibili «ostacoli» (il relitto aveva deformazioni sulle balaustre e un bozzo sulla fiancata), una testimone riferì di vedere la sera dalle finestre il peschereccio e di non averlo trovato la mattina. Nel primo processo testimoniò il contrario, fu dichiarata inattendibile e la questione liquidata.

«La “21 Oktobar II” è una delle ipotesi relative alla terza nave. Ci stiamo lavorando nello specifico perché c’è un aspetto interessante. Al Rina (il registro navale italiano, ndr ) di Genova con la Guardia di Finanza abbiamo prelevato molto materiale», spiega Romano: «Ci stiamo lavorando in due sensi: la Moby prima di partire era in buono stato e in regola? E la “21 Oktobar II”: sappiamo che sarebbe stata riparata a Livorno per danni accaduti a Zanzibar. Cosa ci faceva lì?». Altra ipotesi, la bettolina: «Se quella notte l’Agip Abruzzo fosse stata coinvolta in un bunkeraggio clandestino? Su questo stiamo lavorando con la Guardia di Finanza: documenti relativi alle attività investigative ci possono dire se erano in corso attività di quel tipo in quei giorni a Livorno, che avrebbero visto navi e bettoline muoversi al buio ed essere oggetto di ostacolo sulla rotta della Moby Prince». Cerceo, a cui l’uomo dei servizi diceva che «gli affari oggi si fanno sul traffico di rifiuti, un vero filone d’oro», spiega che la Shifco era «una società dei servizi segreti». Portava anche armi «per attivare le componenti politiche che si favorivano e i rifiuti tossici perché bisognava smaltirli. Un po’ meno comodo dell’affondare le navi nel mare. Queste cose le scrissi alla commissione che poi si occupò di Ilaria Alpi presieduta da Carlo Taormina, ma non ho mai ricevuto risposta».

Era su eBay uno dei trenta prototipi della Philips che incidevano su nastro non quattro ma undici piste. Le comunicazioni radio sul «canale 16» della notte dell’incidente vengono da una sua bobina, ora digitalizzata, della quale fino ad oggi si erano potuti ascoltare solo due di quegli undici canali per mancanza del lettore originale. Copia della sbobinatura integrale è stata inviata alla Procura. Cetena, società di ingegneria navale di Fincantieri, sta realizzando per luglio una simulazione di navigazione per ricostruire quel che potrebbe aver visto lo stesso comandate del Moby. Usa e Russia hanno fatto sapere di nuovo di non avere immagini «spia» di quella notte. Ma il servizio geologico statunitense ha desecretato due anni fa le foto della terra di trent’anni fa: un tecnico ha già isolato quelle del mare di Livorno dell’8, 9, 10 aprile 1991. Alla Francia sono stati chiesti anche i tracciati radar dalla postazione in Corsica. A Eni (ha scorporato Snam nel 2012) è stata chiesta sia l’indagine interna dell’epoca che i tracciati delle comunicazioni satellitari delle navi.

 

«Il Moby Prince è stato il più grande depistaggio giudiziario della storia della Repubblica, peggio di Ustica», ha detto Angelo Chessa, uno dei figli del comandante del Moby, col fratello alla guida dell’associazione 10 Aprile: «Peggio, perché qui la verità veniva addirittura scambiata». Lui e gli altri familiari attendono l’esito del procedimento civile in appello al Tribunale di Firenze e confidano che qualcuno illumini l’ultimo buio rimasto, quello su quei «venti minuti».