Non fosse per quella storia del tovagliolo ricamato, per Giorgia Meloni andrebbe tutto benone. La transumanza di ritorno è già cominciata: bussano alla porta parlamentari, consiglieri regionali, consiglieri municipali, ex leghisti soprattutto (l’ultimo a Roma, nel terzo municipio). Vogliono fare tutti i Fratelli d’Italia, adesso: e ci mancherebbe.
I sondaggi danno Fdi primo partito (21,6 secondo l’ultimo di Swg). Il riposizionamento atlantista è stato articolato e ha funzionato senza incidenti di percorso (il dissenso è rimasto tutto nel dibattito interno). Le card sui social vanno a gonfie vele, i video con gli orecchini enormi, i capelli all’indietro e la faccia cattiva pure. Il racconto di Fratelli d’Italia come partito di governo è cominciato, dovrebbe proseguire insistendo verso il «partito dei conservatori», linea su cui la spinge il più influente tra i Fratelli, Guido Crosetto, oltre al costruttore del suo profilo europeo Raffaele Fitto e, prudentemente dietro le quinte, con spunti e idee, Carlo Fidanza.
Ora manca l’ultimo miglio prima delle prossime politiche, una corsa lunga al massimo un anno che comincerà il 29 aprile con una tre giorni a Milano, chiamata conferenza programmatica (per ora priva di un programma preciso, nel pieno stile Fdi): se tutto va come previsto vedrà Meloni sul palco del Milano convention Center, in contemporanea col concertone del primo maggio di San Giovanni a Roma, a parlare di libertà, impresa, lavoro. Probabilmente a lanciare una sfida a Salvini, un’opa sul Nord già forzista, certamente in manovra per un’operazione essenziale: la conquista della leadership. E qui comincia il vero guaio, per Giorgia Meloni: la leadership di che? «Qui non è un problema di leadership: qui il problema è capire quale è la casa», sospirano i suoi alludendo a una coalizione che sta mezza al governo e mezza all’opposizione. E ancora: «Una volta litigavamo sul pater familias: ma ora manca la familia».
Lo stato penoso del centrodestra entro cui Meloni dovrebbe collocarsi è, in effetti, raccontato rapidamente da un dettaglio, finora non rivelato, sulla festa di non-matrimonio tra Silvio Berlusconi e Marta Fascina a Villa Gernetto: pur battezzato dal Cavaliere davanti alla torta come «l’unico leader e alleato più affidabile», Matteo Salvini non ha trovato a tavola il tovagliolo con sopra ricamato il proprio nome, omaggio per tutti gli invitati. I tempi lunghi del ricamo a mano, nobile arte di vecchio conio, non potevano coincidere con quelli del (diciamo) coinvolgimento last minute del leader leghista. Ed ecco i rapporti nel centrodestra racchiusi in un fazzoletto: il fu Signore di Arcore pensa al suo privato (sotto l’occhio attento della prole), «l’alleato più affidabile» è praticamente un imbucato, la più alta nei sondaggi non è nemmeno invitata.
Meloni, d’altra parte, ricambia. In ultimo, si è legata al dito quello che chiama il «tradimento» del Quirinale, cioè l’improvvisa sterzata di Salvini verso il Mattarella bis: non vede e non parla con il leader leghista dai giorni della Merla. Talvolta si scrivono, ma i toni non contribuiscono alla distensione. Nelle chiacchiere sussurrate tra i Fratelli, i rapporti ai minimi termini si vedono anche dalla scelta di pronomi e aggettivi: il nome in codice di Salvini è «quello» (di peggio ci sarebbe soltanto: «quello là»), mentre per alludere a Lega e Forza Italia ci si riferisce allegramente ai «moribondi». Non è del resto un segreto che nei sondaggi il Carroccio si situi addirittura sotto la metà del 34,3 per cento conquistato alle Europee del 2019, e cioè al 16,8 secondo Demopolis, al 15,6 per Swg, mentre Forza Italia, tra un finto matrimonio e una mancata ascesa quirinalizia, sta serenamente continuando il processo di dissanguamento (ora è sul 7,5 per cento).
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Su questo ridente panorama si stagliano le amministrative del 12 e 26 giugno, che vedono al voto molto nord (da Verona a Genova e La Spezia, da Asti a Gorizia e Parma), città chiave come Palermo, ma anche Messina, in una Sicilia che dovrà rinnovare in autunno anche il suo governo Regionale. Una partita sulla quale lo stato dell’arte nel centrodestra è del tutto analogo a quello delle amministrative di settembre, che portarono alle sublimi scelte del tribuno «meravijoso» Enrico Michetti per Roma e del pediatra con la pistola Luca Bernardo a Milano. In sintesi: «È un terno a lotto». Passi avanti? «Zero», è la laconica risposta.
Proprio per questo in Fdi, che pure vuol giocarsi a Verona la partita su Federico Sboarina e non perdere il filo delle vicende siciliane (ha candidato Carolina Varchi a Palermo e insiste su Nello Musumeci per la regione), sulle amministrative non arriva ad esprimere «neanche un cauto ottimismo». Tavoli non se ne fanno, il principio condiviso tra Lega, Fdi e Fi della ricandidatura degli uscenti è già stato smentito, la pratica di convergere su candidati civici ha già mostrato i suoi limiti. Insomma trovare un accordo, e quindi diventare competitivi, appare difficilissimo. Soprattutto perché questa tornata amministrativa è legata con la prossima: tra un anno vanno al voto, fra le altre regioni, Lombardia e Lazio. E la Lega, che pure considera suo feudo il Pirellone, non nasconde le mire per la poltrona di Nicola Zingaretti: dovrebbe in teoria spettare a Fdi, ma dicono, in proposito, che il leghista Claudio Durigon si sia messo a dieta addirittura un anno fa, pur di arrivare al voto nella migliore delle forme fisiche.
Sul fronte generale di quest’alleanza che non riesce a ripensarsi (né a sciogliersi), c’è anche il paradosso che Meloni, pur continuando a salire nei sondaggi, si trova in posizione di minoranza rispetto ai suoi alleati: sempre a rischio emarginazione, nei giochi di Lega e Fi, costretta a giocare di sponda con i suoi avversari (Draghi, Letta) per non finire nell’ininfluenza.
Quanto accaduto in Parlamento nell’ultimo mese lo mostra benissimo. A metà marzo, proprio le assenze dei deputati di Lega e Forza Italia sono state determinanti per affossare, in commissione Affari costituzionali, la proposta di riforma presidenzialista presentata da Meloni, che aveva tentato di cavalcare - dopo le vicende del Quirinale - una bandiera storica del centrodestra. A fronte della freddezza e dei tentativi di boicottaggio dei presunti alleati, è da quella che dovrebbe essere la sponda opposta dei Fratelli d’Italia che arrivano i maggiori supporti. Da un lato il rapporto privilegiato con Mario Draghi: un gioco di sponda palmare, che ha dato i suoi frutti almeno in un paio di occasioni. La prima, nel ringraziamento esplicito rivolto alla Camera, nel giorno dell’intervento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dal presidente del Consiglio anche al «principale partito di opposizione» per il sì «con unità e convinzione» alle misure in favore dell’Ucraina e contro la Russia. La seconda, nell’ordine del giorno sulle spese militari, presentato da Fratelli d’Italia (in piena continuità con la tradizione missina) e fatto proprio dal governo, in un palese gioco di sponda: Fdi ha infatti ritirato l’ordine del giorno prima che lo si potesse votare, come avevano chiesto M5S e Leu, evitando così a Draghi la prevedibile spaccatura della maggioranza in Aula.
Del resto è proprio sul fronte dei rapporti internazionali che in queste settimane di guerra Meloni si è più concentrata. Non soltanto con la linea dura verso Putin, inafferrabile per il filo-putiniano Matteo Salvini e invece pienamente sintonica con quella del capo del Pd Enrico Letta (ormai fuori dal Parlamento i due fanno coppia fissa tipo Sandra e Raimondo della politica, l’ultima volta mercoledì al convegno organizzato da Farefuturo a piazza della Minerva). Ma anche con un deciso allineamento atlantico che, pur essendo perfettamente in linea con la tradizione del Msi, non è propriamente il punto di partenza di chi - come la stessa leader di Fdi e tanti del suo gruppo stretto - è nato e cresciuto nei giovani del Fronte della Gioventù, tradizionalmente più incline ad articolare l’antiamericanismo anti-Nato che non ad esaltare quello che in altri tempi si sarebbe chiamato l’interventismo yankee.
I frutti si son visti. Plasticamente, proprio nei giorni in cui Matteo Salvini compiva il suo disastroso viaggio in Polonia e si faceva sventolare sulla faccia la maglietta con l’effigie di Putin dal sindaco di Przemysl (muto da allora, Salvini, non si è ancora ripreso dallo choc), la leader di Fdi tornava felice dalla Convention dei repubblicani Usa (Cpac) a Orlando, dove era intervenuta con un buon successo.
Manca ora a Meloni il fronte italiano da rimodellare, aggiornare, rendere competitivo uscendo dalla comfort zone di una destra abituata a stare all’opposizione, seduta in un ghetto che si è ormai arredato, stregata dal fascino del nessuno mi comprende. Ci si aspetta che sia proprio l’appuntamento del primo maggio a far partire questo nuovo corso: addio al sovranismo, largo ai conservatori, appunto. Qualcuno non esclude nemmeno che Meloni, a questo fine, stia pensando di togliere dal simbolo di Fdi la fiamma che fu missina. Ma guai a ipotizzare una “Fiuggi 2”, come fu la svolta dell’Msi che aprì la stagione di Alleanza Nazionale. Qualsiasi riferimento alla storia di Gianfranco Fini viene considerato un tentato danneggiamento, un effetto kriptonite da scongiurare ad ogni costo. Lo si capisce anche dalla fatica con la quale Meloni approccia l’ipotesi di pronunciare quel «sono antifascista» che, a giudicare da come si muove, non faticherebbe affatto a dire. E che il suo partito, per grandissima parte, sarebbe pronto a seguire.