Fazil Popalzai era a capo del dipartimento antiterrorismo (Atdp) della provincia di Kapisa, in Afghanistan. Dopo la presa di Kabul da parte degli studenti coranici, si è nascosto per quasi sette mesi. Prima di riuscire a venire in Italia, grazie all’aiuto dell’associazione di alpinismo “Mountain wilderness”

«Sono braccato, vivo lontano da casa in un buco. Ho davanti solo il cimitero». Questo il messaggio, tanto laconico quanto disperato, che Fazil Ahmad Popalzai, ex pubblico ministero della provincia di Kabul e, in seguito, a capo del dipartimento antiterrorismo (Atdp) della provincia di Kapisa, ha mandato lo scorso dicembre. «Dopo che i talebani hanno ripreso il controllo del Paese, per me qui non c’era più futuro. Ho dovuto cancellare tutto, cambiare identità», racconta Popalzai, che lo scorso 23 aprile è riuscito a raggiungere l’Italia, dove tutt’ora si trova, e vorrebbe costruire il suo futuro. «Per me qui è iniziata una seconda vita. Sono morto in Afghanistan, dopo la presa di Kabul dei talebani, e rinato qui. Voglio che i miei figli studino, imparino l’italiano». Un’attesa di quasi quattro mesi da quel messaggio di aiuto. «Diverse volte ho avuto paura di morire. Mi sento fortunato a essere sopravvissuto. Per molti miei amici e colleghi, purtroppo non è andata così bene…».

A causa del suo lavoro, specializzato nella persecuzione di crimini di terrorismo, tra cui dunque anche Isis, talebani e Al Qaeda, Popalzai era una delle figure più a rischio di rappresaglia e vendetta degli studenti coranici. Innanzi alle corti di giustizia ha indagato sui reati degli attuali membri del governo. Ha investigato su attentati, esplosioni, uccisioni a sangue freddo su civili inermi, «22 persone uccise da un terrorista mentre passeggiavano». Nonché sul governatore di Kabul. «Alcuni amici mi hanno detto che, una volta uscito di prigione, è venuto subito a cercarmi davanti casa. Ha chiesto anche della mia famiglia, per fortuna eravamo già scappati».

Negli occhi di Popalzai sembrano combattere due sentimenti. Da una parte, la gioia di stare in Italia, manifesta ogni volta che parla al presente, o meglio al futuro, dei figli in particolare. Dall’altra, la rabbia e la frustrazione per il destino del suo Paese, privato delle libertà e dei diritti più basilari per come sono intesi in Europa. Diritti per i quali Popalzai ha lavorato, rischiato e condotto battaglie che oggi vengono vanificate: «Nei 20 anni di intervento militare americano nel centro di detenzione centrale si era toccato il numero di 18.000 persone che avevamo arrestato. Quando nell’ambito degli accordi di pace portati avanti nel 2020 dall’ex presidente afghano Ashraf Ghani e i talebani si era raggiunto il compromesso di 5.000 talebani liberati, mi sono interrogato sulla valenza della parola “pace”. Sapevo che una loro scarcerazione avrebbe portato solo ad altre violenze». Circa 66.000 soldati dell’esercito afghano sono morti nel corso di 20 anni di conflitto nel Paese. Secondo il Watson Institute della Brown University, Stati Uniti, più di 71.000 civili, afghani e pakistani, sono morti a causa del conflitto, 241.000 in totale. «Nei primi mesi dopo la presa di Kabul si parlava di 500 persone uccise dai talebani. Per quello che ho visto io, direi che sono dieci volte tanto».

Questi numeri Popalzai li sciorina con lo sguardo deluso di chi ha fatto di tutto per evitarli. Poi, quando parla del suo viaggio verso l’Italia, ritrova immediatamente il sorriso. Quando i talebani hanno preso il potere, racconta, è stato dunque costretto a scappare. Dopo mesi di fuga e cambio continuo di nascondigli, è riuscito a mettersi in contatto con l’associazione di alpinismo “Mountain wilderness”, per la quale svolse il ruolo di interprete nel 2005, in occasione di un corso nelle montagne dell’Hindu Kush per promuovere la conoscenza del territorio da parte dei suoi abitanti e stimolare così il turismo in una regione dalle potenzialità altrimenti non sfruttate.

Il messaggio di aiuto è arrivato prima a Elisabetta Galli, istruttrice, e poi a Carlo Alberto Pinelli, cofondatore dell’associazione, regista e docente di Scienze dello spettacolo e dei media all’università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Pinelli è considerato uno dei massimi esperti mondiali delle montagne dell’Hindu Kush, il primo a scalarne sette vette, versante sia afghano che pakistano, e autore dell’unica guida esistente a riguardo, “Peaks of Silver and Jade”. Nel mediometraggio “Siddiqa e le altre. Un sogno afghano”, che racconta l’esperienza in queste montagne cui ha partecipato anche Popalzai, Pinelli racconta l’esperienza di tre giovani ragazze afghane che dell’alpinismo fanno una chiave per la libertà.

 

Carlo Alberto Pinelli al campo Falaksar  

«In Afghanistan alcuni degli allievi avevano dato vita a attività legate al turismo d'avventura con un certo successo», racconta Pinelli. «Oggi mi scrivono che a causa dei talebani ogni forma di turismo è scomparsa e loro -letteralmente - muoiono di fame e chiedono aiuto».

Dopo aver ricevuto il messaggio del suo vecchio allievo, Pinelli si è prodigato per trovargli una via di fuga. Grazie a una conoscenza nel ministero degli Affari esteri, di cui non vuole fare il nome, è riuscito a coinvolgere l’ufficio visti e quindi l’Ambasciata di Islamabad, in Pakistan, da dove Popalzai sarebbe potuto partire per venire in Italia. Dopo un controllo del ministero dell’Interno per accertare la veridicità del suo racconto e l’imprescindibile garanzia di un inserimento nella società italiana, possibile grazie all’associazione Abele, fondata da Don Ciotti, è stato possibile far arrivare Popalzai in Italia.

Pinelli riceve dal presidente della repubblica islamica del Pakistan l'alta onorificenza: Sitara-i Imtiaz

«È stato un processo molto lungo e complesso, ma soprattutto rischioso, soprattutto nel periodo di permanenza in Pakistan, che teoricamente non poteva essere superiore a un mese», racconta Pinelli.

Dietro a visti e burocrazia, c’è la paura di Popalzai, «mai così tanta provata in vita mia», di lasciare il Paese. Di dover passare per un aeroporto controllato da persone che lo vorrebbero morto. Ottenuto un visto per una licenza commerciale, pagato 2.000 dollari, si è posto il problema di superare i controlli all’aeroporto: «Conoscevo un amico che lavorava nell’aeronautica militare, e dunque al corrente della quasi totale mancanza di tecnologia di controllo nell’aeroporto», racconta l’ex capo dell’Atdp, che non vuole fare nomi e non sa, né vuole sapere, dove si trovino le persone di cui parla. «Per salire sull’aereo però serviva una motivazione: un’altra nostra conoscenza che lavorava in un ospedale ci ha fornito delle certificazioni di malattia per i genitori del mio amico nell’aeronautica, delle sedie a rotelle e un’ambulanza». Arrivati al momento del controllo dei documenti e del certificato di malattia, ecco i 20 minuti in cui viene deciso, sempre da persone che non conoscono la sua identità e che con buone probabilità ti vorrebbero morto, se la vita può fare un salto verso la libertà, o terminare. «Ero sicuro di morire. Anche se sapevo che i sistemi di controllo non funzionavano. In aeroporto c’erano persone arrestate, con le manette, già mi vedevo come loro».

Alla fine Popalzai è riuscito a raggiungere il Pakistan, dove è rimasto due mesi, di cui il primo grazie al visto e il secondo pagando una multa, in attesa dell’aereo che lo portasse in Italia. Oggi si trova a Rimini, con la famiglia e il cugino. «Amo questo Paese, e voglio che ne possano far parte a pieno titolo». Non può ancora lavorare, racconta, ma sta facendo di tutto per ottenere i documenti necessari e poter applicare i suoi studi, un master in legge e uno in criminologia conseguiti a Kabul, per trovare un impiego in Italia e aiutare chi non ha avuto la stessa fortuna. «Ho colleghi in Pakistan che non hanno cibo né documenti. Li voglio aiutare, voglio che tutti abbiano una seconda chance».