Turni infiniti senza possibilità di pausa, donne con il ciclo costrette a non cambiarsi per un’intera giornata, minacce e umiliazioni pubbliche. È quello che succede ogni giorno a troppi lavoratori in Italia. L’Espresso con Aestetica Sovietica ha raccolto le loro testimonianze. Segnalateci la vostra storia

«Io in bagno non ci posso andare. A lavoro sono perlopiù sola e quindi non posso allontanarmi. La pipì si fa una volta la mattina e poi sette ore dopo a fine turno, se ti ricordi. Recentemente durante il periodo del ciclo mi sono macchiata ovunque. Camminavo con le mani che mi coprivano il sedere, in modalità gambero, per salvare il salvabile». Così scrive Elena, nome di fantasia (come gli altri riportati in quest’articolo), a Aestetica Sovietica, un editoriale online indipendente che si occupa di analisi del linguaggio all’incrocio fra diritti civili e sociali.

Qualche settimana fa, subito dopo che un assorbente usato trovato fuori dal cestino aveva scatenato la rabbia della direttrice di un supermercato di Pescara nei confronti delle lavoratrici, Aestetica Sovietica, insieme con L’Espresso, ha deciso di raccogliere le testimonianze di chi durante il turno non ha neanche il tempo di andare in bagno. O se ne ha, è talmente poco da dover fare tutto di corsa. Con l’obiettivo di amplificare la voce dei lavoratori costretti, ancora troppe volte, a sopportare condizioni degradanti pur di non perdere l’impiego. Perché il lavoro non è un privilegio ma un diritto. «Allargare le maglie di un episodio che balza agli onori della cronaca conduce la nostra community a condividere con noi le proprie esperienze. In questo modo trasformiamo il format dell’indignazione in quello della rivendicazione politica» dice il fondatore della pagina social.

La storia
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Così dalle testimonianze raccolte emerge uno spaccato avvilente della quotidianità dei lavoratori in Italia contrassegnata da pratiche umilianti che, proprio perché così comuni, per molti sono diventate una normalità da vivere in silenzio. Non soltanto Elena ma anche Francesca, Roberta, Stefania e tantissimi altri. Sono per la maggior parte donne quelle che hanno deciso di raccontare come hanno visto violata la propria dignità sul posto di lavoro, fino a perdere la possibilità anche di usare il bagno.

«A volte mi è capitato di fare la pipì nel secchio che utilizzavamo per lavare i pavimenti, chiudendomi nello sgabuzzino solo per qualche secondo», racconta Stefania che lavorava in un negozio di intimo molto frequentato. «Non c’erano i servizi all'interno. Dovevo uscire per raggiungere la toilette pubblica, dall’altra parte della stazione. Noi dipendenti avevamo accesso al bagno dei disabili che, però, non sempre era libero. In più, per evitare il pedaggio, dovevamo aspettare che il custode ci portasse le chiavi». Così quando Stefania aveva il turno da sola, di solito la domenica dall’apertura fino a pranzo, si organizzava: «Non bevevo tè a colazione, pochissima acqua durante il giorno. In modo da non dover lasciare il negozio incustodito per andare in bagno. Per le altre commesse era lo stesso, avevamo paura arrivasse il capo e si infuriasse per aver chiuso il punto vendita, sebbene solo per pochi minuti».

Anche Francesca ha dovuto vivere le stesse degradanti sensazioni. «Una volta ho chiamato la responsabile chiedendole di sostituirmi, giusto il tempo di fare la pipì. Lei ha risposto, ad alta voce, davanti ai clienti in coda alla cassa: “avresti dovuto pensarci durante la pausa. O hai problemi di incontinenza?”. Mi ha umiliata». Francesca lavorava come cassiera in una catena di supermercati, in nord Italia. Racconta che, durante il turno, ai dipendenti era vietato pure bere. «Quando la responsabile ha visto una mia collega che nascondeva la bottiglietta d’acqua nella tasca della divisa, ha fatto una scenata».

 

Roberta, invece, pur di non far innervosire i suoi capi, ha tenuto lo stesso assorbente per oltre dieci ore. «Lavoravo in un chiosco al mare per la stagione estiva. Nei weekend c’era il pienone ed eravamo troppo pochi per accontentare tutti i clienti. Così era impossibile assentarsi per utilizzare il bagno». A causa dello sfregamento continuo dell’assorbente sulla pelle, Roberta si è ferita e nei giorni seguenti ha fatto fatica a camminare. Visto quanto accaduto si è convinta a lasciare il lavoro. «Prima pensate ai clienti e poi alle esigenze fisiologiche» era il mantra dei suoi capi.

Sono condizioni inaccettabili. Regole non scritte, perché se lo fossero violerebbero la dignità della persona, ma che la routine volta a massimizzare i profitti e ridurre le spese trasforma in norme comportamentali che i lavoratori si sentono costretti ad accettare. Sono situazioni diffuse che attentano al benessere non soltanto del singolo ma del mondo del lavoro dell’intero Paese abbassando l’asticella dello standard minimo che un datore di lavoro deve garantire ai dipendenti.

 

Come spiega Raffaele Fabozzi, professore di Diritto del lavoro all'università Luiss: «Oltre agli obblighi e alle pause previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, proprio come in ogni contratto, anche in quello di lavoro le parti devono comportarsi secondo correttezza e buona fede. Il datore di lavoro è obbligato a tutelare la salute dei propri lavoratori, adottando le misure necessarie a salvaguardare l’integrità fisica e personalità morale degli stessi. In questo bilanciamento di diritti e di interessi, il datore di lavoro deve sicuramente tenere in considerazione le esigenze fisiologiche del lavoratore».

 

E invece, proprio mentre la Spagna sta per varare una legge per concedere tre giorni di congedo mestruale al mese a chi ha un ciclo doloroso, in Italia i diritti basilari dei lavoratori, perfino quello di andare in bagno, continuano a essere calpestati.