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La coppia di uiguri scappati in Italia: «I nostri figli sono imprigionati in Cina, Di Maio ci aiuti»
L’appello disperato di due genitori fuggiti nel nostro Paese sei anni fa. Il regime di Pechino ha reagito alla fuga internando i loro bambini minorenni. I genitori chiedono al governo di Roma il ricongiungimento familiare, ma la pratica è insabbiata dal 2020
Una vera odissea, lunga sei anni. Mihriban Kader e Ablikim Memtinin sono due genitori uiguri scappati in Italia per sfuggire alle vessazioni da loro subite quando vivevano nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, dove la maggioranza della popolazione è di origine turca e musulmana. Discriminazioni etniche e religiose, ma anche soprusi e violenze psicologiche, che si manifestavano in vari modi: dal divieto di espatrio con ritiro dei passaporti al rigido controllo delle nascite, fino al punto di verificare sul suo corpo se una donna fosse incinta.
Per la signora Mihriban e il marito Ablikim il 2016 è non solo l’anno della grande fuga, è anche l’inizio del periodo più atroce per gli uiguri, perseguitati fin dal 2014, quando la Cina lanciò la sua «guerra al terrorismo», dopo una serie di attentati di matrice islamica proprio nello Xinjiang. Un'area trasformata in uno stato di polizia a sorveglianza estrema. Dove la coppia ha dovuto abbandonare i suoi quattro bambini, finiti ufficialmente in un orfanotrofio del distretto di Kashgar, in realtà un lager. Da allora non hanno più potuto vederli.
Ora in questa tragedia familiare potrebbe aprirsi un primo spiraglio di speranza, probabilmente per effetto di un allentamento della morsa repressiva, deciso dalle autorità cinesi alla vigilia della visita dell'Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, prevista dal 23 al 28 maggio, con missione finale proprio nello Xinjiang. Così Mihriban Kader, tramite L’Espresso, rivolge un appello al ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Ho saputo da uno dei miei figli che il governo cinese sarebbe disposto a lasciar venire qui in Italia tutti loro, tutti e quattro, se qualcuno andasse a prenderli e li accompagnasse all'ambasciata italiana per ottenere i visti necessari per l’espatrio». La signora aggiunge un patricolare importante: «La mia figlia più grande ha da poco compiuto diciott'anni e quindi, diventata maggiorenne, potrebbe ricevere da noi una delega per poter partire insieme agli altri tre suoi fratelli». Che ora hanno, rispettivamente, 17, 15 e 13 anni.
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Mihriban e Ablikim vivono nel Lazio, a Latina, con altri tre figli, tutti nati in Italia. Nel maggio 2021 sono stati protagonisti di una protesta, con un sit-in organizzato davanti alla Farnesina, sede del ministero degli Esteri, dal “Comitato mondiale per lo stato di diritto-Marco Pannella”, con la collaborazione di Amnesty International, che da tempo si sta prendendo cura di questa famiglia uigura. Che non esita a far sapere all'opinione pubblica che cosa è successo da quando hanno lasciato la Cina da soli, sperando che i quattro bambini potessero raggiungerli in un secondo tempo. È stato invece l'inizio di un incubo.
Dopo la fuga, la polizia ha preso subito di mira i genitori di Mihriban: la madre è stata internata in un campo di rieducazione; il padre, ottantenne, interrogato per molti giorni prima di essere ricoverato in ospedale. E i bambini? Quando a scuola i maestri sono resi conto che nessuno li seguiva, perché gli altri parenti, temendo di essere anche loro deportati, erano spariti, si sono rivolti alle autorità locali. La sentenza è stata veloce: orfanotrofio, un eufemismo per una prigione speciale riservata a tutti quei ragazzi che sono figli di uomini e done considerati «traditori». In quel centro i bambini uiguri vengono sottoposti a controlli continui, 24 ore al giorno. La struttura è popolata di almeno mille bambini o adolescenti, dai 9 mesi di età fino a 21-22 anni, tutti rimasti senza famiglia.
Nel novembre 2019, muore il padre di Mihriban, cioè il nonno dei bambini. Ma poco dopo arriva la prima buona notizia. Il governo italiano ha concesso il permesso per il ricongiungimento familiare in Italia. Però c'è un problema. I quattro bambini dovrebbero raggiungere il consolato di Shanghai, cinquemila chilometri di distanza dalla loro città, Kashgar. Ce la fanno, in mezzo a mille traversie, spesso rifiutati dagli alberghi e ostelli perché uiguri. Quando finalmente giungono a Shanghai con i passaporti, il consolato non li fa entrare: i visti per i ricongiungimenti, sostengono i funzionari, possono essere emessi soltanto dall'ambasciata di Pechino. Quindi, tutto inutile.
Nel frattempo, siamo ormai a giugno 2020, scatta il lockdown per il coronavirus: vietato viaggiare. Sfiduciati, i quattro minorenni girano per Shanghai, fino a quando non vengono notati dalla polizia che li rispedisce nell’orfanotrofio-prigione di Kashgar. Ora in Cina nessun altro può più accoglierli, anche se potessero uscire da quel carcere. La loro nonna, la madre di Mihriban, è sempre a letto, non è più autonoma. Altri parenti non vogliono essere coinvolti, per evitare dei guai con le autorità cinesi. Anche la casa dove era sempre vissuta questa famiglia di uiguri, non c'è più. È stata requisita e concessa ad altre persone cinesi, gradite al regime.