Migliaia di immagini e documenti delle forze di sicurezza di Pechino mostrano le carceri dove sono segregati centinaia di migliaia di detenuti della minoranza perseguitata. Una fuga di notizie senza precedenti, al centro dell’inchiesta giornalistica di 14 testate internazionali, tra cui L’Espresso

Centinaia di migliaia di uomini e donne, selezionati su base etnica e religiosa, che restano reclusi per anni in carceri speciali, senza diritti di difesa, senza poter dire nemmeno di essere detenuti in queste prigioni segrete. Il regime comunista cinese li definisce «centri di rieducazione e formazione». Sono stati creati a partire dal 2017 nella regione dello Xinjiang, dove la maggioranza della popolazione è musulmana, per riportare all'ordine e tenere sotto controllo milioni di uiguri e altre minoranze di lingua turca. Alle accuse internazionali di violazione dei diritti umani, Il governo di Pechino ha finora risposto smentendo qualsiasi abuso e negando l'esistenza stessa di programmi di detenzione di massa: si tratterebbe di istituti di formazione professionale e addestramento al lavoro, dove gli ospiti entrerebbero volontariamente, senza subire coercizioni. A smentire la versione ufficiale ora sono migliaia di documenti e fotografie che mostrano la realtà di questi centri, per la prima volta, dall'interno.

 

Si vedono prigionieri ammanettati, incatenati, sbattuti a terra, circondati da schiere di poliziotti in tenuta da combattimento. Gli spazi interni sono chiusi con sbarre e recinzioni di ferro, le stanze e i corridoi non hanno finestre, solo lucernari in alto, i cortili sono bloccati da alti muri di cemento, tutto è sorvegliato da squadre di guardie armate. Ci sono foto di persone con le manette ai polsi anche in infermeria durante un'iniezione. Uomini con segni evidenti di percosse e tumefazioni su tutto il corpo. Decine di donne, anche giovanissime. E ragazzini minorenni. Di fronte a tentativi di «evasione» o «ribellione», un documento del funzionario di vertice ordina alle guardie di «sparare per uccidere».

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Questa inchiesta giornalistica, chiamata Xinjiang Police Files, ha permesso ai cronisti di 14 testate internazionali, tra cui L'Espresso in esclusiva per l'Italia, di avere accesso a decine di migliaia di atti e immagini usciti dagli archivi informatici delle forze di sicurezza di due prefetture di quella regione cinese. Le fotografie ritraggono più di cinquemila individui sottoposti a schedatura, di cui 2.884 sono registrati come detenuti nei cosiddetti centri di rieducazione. Le carte contengono tutti i dati di circa 20 mila persone tenute sotto stretta sorveglianza: ad ogni nome è associato un numero con un codice identificativo. Per gli internati nei centri di rieducazione viene precisata la durata della detenzione e il tipo di accusa. I documenti, scritti in caratteri cinesi, includono le trascrizioni dei discorsi e delle istruzioni alle forze di polizia impartite dai massimi responsabili del partito nello Xinjiang, che dichiarano esplicitamente di eseguire le direttive centrali, attribuite personalmente al presidente cinese Xi Jinping. Questi e molti altri documenti sono classificati come segreti. Gli atti più riservati in origine erano criptati.

 

Questa fuga di notizie ha permesso ai giornali internazionali di pubblicare per la prima volta, a partire da oggi, le fotografie scattate all'interno dei centri di rieducazione, senza l'autorizzazione e il controllo delle autorità cinesi. Le immagini evidenziano che si tratta di strutture carcerarie di massima sicurezza sorvegliate da forze militarizzate e mostrano una situazione di detenzione e segregazione, in palese contrasto con le foto diffuse finora dalla propaganda di regime.

 

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Gli Xinjiang Police Files sono stati ottenuti da un professore tedesco-americano, Adrian Zenz, già autore di diverse ricerche sulla persecuzione cinese degli uiguri. Lo studioso scrive di aver ricevuto i dati informatici da «una terza persona», che ha eseguito «sofisticate operazioni di hackeraggio dei computer degli Uffici di pubblica sicurezza dei distretti di Konasheher e Tekes». Le fotografie riguardano due grossi centri di rieducazione, ciascuno con migliaia di detenuti. Il professore specifica che la sua fonte è «un unico soggetto, che ha agito su basi esclusivamente individuali», senza legami con organizzazioni politiche o apparati statali, «non ha posto condizioni per la pubblicazione» e «ha chiesto di restare anonimo per motivi di sicurezza personale».

 

Zenz è un antropologo, nato in Germania, che ha lavorato per diverse università in Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti, dove è entrato a far parte di fondazioni e think-tank conservatori con base a Washington. Dopo le sue prime pubblicazioni, il governo di Pechino lo ha inserito, insieme ad altri studiosi occidentali, nella lista dei soggetti sottoposti a sanzioni, con l'accusa di aver «diffuso menzogne e disinformazioni danneggiando gli interessi e la sovranità della Cina». Il suo nuovo studio viene pubblicato dal Journal of the European Association for Chinese Studies. Zenz sottolinea che il suo lavoro sugli Xinjiang Police Files ha superato la revisione accademica di altri esperti.

 

 

I documenti più importanti, le fotografie e i loro contenuti sono stati sottoposti a verifiche informatiche e controlli con fonti esterne, durati diversi mesi, da parte dei giornalisti di 14 testate di undici nazioni: Der Spiegel, Bbc News, Politiken, Le Monde, Usa Today, Mainichi Shimbun, International Consortium of Investigative Journalists, Nhk World Japan, Bayerischer Rundfunk, Yle Finnish Broadcasting Company, Dagens Nyheter, Aftenposten, El Pais e L'Espresso.

 

Oltre a interpellare studiosi indipendenti, ricercatori e professori di altre università europee, americane ed asiatiche, i cronisti sono riusciti a raggiungere alcune famiglie di uiguri, emigrate all'estero, che hanno riconosciuto le foto dei loro parenti e confermato il loro arresto. O la loro sparizione, seguita dalla totale mancanza di notizie ufficiali. Ci sono genitori hanno saputo dai giornalisti, per la prima volta, che i loro figli erano ancora vivi, ma detenuti nelle prigioni segrete dello Xinjiang. Per verificare le informazioni, un gruppo di cronisti ha telefonato a più di 150 ufficiali delle forze di sicurezza, i cui nomi e numeri d’ufficio sono registrati in una lista ricompresa nei files. 

 

Il programma di controllo della regione speciale, che si trova nella zona nord-ovest della Cina, era stato giustificato dal regime di Pechino con la guerra al terrorismo, dopo una serie di attentati eseguiti da islamisti radicali provenienti dallo Xinjiang. A partire dal 2019 una serie di studi e inchieste giornalistiche internazionali hanno accusato il regime comunista di aver segregato e internato una moltitudine di uiguri, con stime che variano da uno a due milioni di persone. Accuse respinte dalle autorità di Pechino, che le hanno bollate come propaganda politica occidentale contro il partito comunista cinese.

 

I documenti hackerati sono decine di migliaia e coprono più di un decennio, fino alla fine del 2018. I registri informatici del comando di Konasheher, dove operano almeno due grandi centri, mostrano che le forze di sicurezza hanno sottoposto a schedatura oltre il 95 per cento degli adulti che vivono in quel distretto e che il 13 per cento risulta internato in una struttura di rieducazione o detenuto in un carcere. Applicando la stessa proporzione, ne risultano accreditate (e confermate per la prima volta da riscontri interni) le stime delle principali organizzazioni internazionali che nell'intero Xinjiang possano essere sottoposte alle stesse misure di segregazione più di un milione di uiguri, oltre a un numero indeterminato di kazaki e persone di altre minoranze.

 

Nei files c'è anche la trascrizione dei discorsi alle forze di polizia tenuti da due rappresentanti di vertice del governo centrale durante una visita nel giugno 2018: Zhao Kezhi, il capo del ministero per la pubblica sicurezza, e Chen Quanguo, membro del Politburo e allora segretario del partito nella regione, che è considerato lo stratega delle politiche di repressione nello Xinjiang e in Tibet.

 

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Nelle trascrizioni, classificate come segrete, Zhao e Chen spiegano che il governo centrale ha deciso di applicare un piano quinquennale, a partire dal 2017, per arrivare alla «normalizzazione» e quindi alla «stabilità generale». Il ministro della sicurezza dice agli ufficiali di polizia, schierati di fronte a lui, che in quel momento nello Xinjiang «ci sono ancora due milioni di persone sotto l'influenza di ideologie estremiste». E aggiunge che l'altro grande nemico sono i «gruppi politici separatisti»: anche loro avrebbero due milioni di seguaci. Chen ammonisce che «queste forze non riconoscono il potere del partito» e «vanno fatte a pezzi». Quindi spiega che di fronte a un tentativo di evasione o di ribellione, le guardie possono fare un richiamo verbale, se possibile, dopo di che hanno l’obbligo di «sparare per uccidere».

Chen Quanguo è stato segretario del partito nello Xinjiang dal 2016 al 2021. Entrambi gli esponenti del governo centrale, mentre impartiscono questi ordini agli ufficiali di polizia della regione, si presentano come fedeli esecutori delle direttive del presidente cinese Xi Jinping, come ripetono loro stessi più volte.

 

I documenti interni della polizia cinese evidenziano che i detenuti uiguri vengono sottoposti a trattamenti spietati, disumani. Le direttive scritte prevedono che i malati possano essere ricoverati in ospedale sono in casi di «urgente necessità di cure mediche». I pazienti, per quanto gravi, vengono incappucciati e ammanettati durante il trasporto. Ogni malato va sorvegliato da almeno due guardie armate e da un ufficiale, in aggiunta al medico della polizia. Le foto del centro di rieducazione di Tekes, nel secondo distretto colpito dalla fuga di notizie, mostrano un detenuto molto anziano che resta ammanettato anche mentre gli viene fatta un'iniezione, sotto gli occhi delle guardie carcerarie, che impugnano grossi bastoni e manganelli. I documenti interni mostrano che le forze di sicurezza possiedono mitra e fucili di precisione, da usare in caso di ribellioni o tentativi di fuga. Le normali guardie carcerarie, che possono appartenere a minoranze etniche, hanno in dotazione bastoni lunghi circa un metro e mezzo, baionette e scudi. Solo gli ufficiali, tutti di etnia han, quella maggioritaria in Cina, sono forniti di armi da guerra.

 

 

I prigionieri dei centri di rieducazione possono parlare con i familiari solo una volta ogni dieci giorni, per dieci minuti, in una videoconferenza sorvegliata. I parenti devono entrare in un’apposita camera di sicurezza, con portoni blindati e due guardie che ascoltano e registrano il colloquio. I detenuti sottoposti al regime di «sorveglianza aggravata» vengono trasportati nella stanza dei video-colloqui con le manette e la testa incappucciata. A tutti viene intimato di non lamentarsi, non piangere e parlare bene del centro di rieducazione. I prigionieri vengono spiati anche da altri detenuti: i files mostrano che la polizia ne ha reclutati almeno 446 come informatori e che utilizza anche infiltrati, cioè agenti che si fingono reclusi.

 

Un documento datato 8 ottobre 2018 ha un titolo da gita scolastica: «Piano di sicurezza per la trasferta degli studenti». L'atto descrive le misure adottate per spostare 505 detenuti da un centro di rieducazione a un altro nello stesso distretto: tutti gli «studenti», uomini e donne, devono viaggiare incatenati, incappucciati e ammanettati con le mani dietro la schiena. Ogni prigioniero va sorvegliato a vista da almeno due guardie. Il convoglio di autobus con i detenuti viene scortato da mezzi blindati con poliziotti armati, in stretto contatto con tutti i comandi locali, che bloccano il traffico.

 

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La fuga di notizie al centro dell'inchiesta giornalistica riguarda solo due dei tanti centri di rieducazione creati segretamente in tutto lo Xinjiang. Tra gli oltre 2800 detenuti di cui ora è possibile vedere le foto segnaletiche, che risultano scattate nel 2018, almeno 15 risultano minorenni. Il più anziano ha 73 anni.

 

Gli Xinjiang Police Files contengono anche un registro informatico con i dati di 330 «persone sottoposte al regime duro per attività illegali collegate alla religione». Pochi di loro vengono però collegati dalla polizia ad azioni terroristiche o a organizzazioni violente. Molti sono accusati soltanto di aver «studiato segretamente il Corano», essersi fatti «crescere la barba sotto l'influenza di estremisti religiosi», di aver «indossato vesti islamiche» o «viaggiato in paesi musulmani».

 

 

Tra le donne detenute, la più giovane ha 14 anni. Il suo internamento nel centro di rieducazione è stato raccomandato nel 2018 dalle forze di sicurezza non per sue presunte colpe, ma perché ha «legami familiari pericolosi»: è la figlia più giovane di un ex ufficiale uiguro, arrestato in precedenza e condannato a 13 anni di galera. Anche la madre è stata incarcerata, lo stesso giorno del marito, e condannata a sei anni di reclusione per un'accusa non meglio precisata di «turbamento dell'ordine pubblico».

 

Gli Xinjiang Police Files segnalano che almeno diecimila persone, solo nei due distretti di Konasheher e Tekes, sono state schedate come pericolose o direttamente arrestate dalla polizia utilizzando un programma informatico di sorveglianza di massa, chiamato Piattaforma integrata unitaria delle operazioni (in sigla Ijop), che ha la pretesa di prevedere attività illecite future. I documenti confermano così un rapporto di Human Rights Watch, che nel 2019 ha accusato il governo cinese di utilizzare un enorme archivio informatico con tutti i dati personali più intimi, creato utilizzando proprio quella piattaforma, che l’associazione di tutela dei diritti umani definisce «l’algoritmo della repressione». Chi cerca di sfuggire a questo spionaggio di Stato di stampo orwelliano rischia di finire nei centri di rieducazione, come mostrano le carte della polizia di Konasheher: tra il 2017 e il 2018 diversi ragazzi sono stati imprigionati con l’accusa di aver usato un’applicazione per lo scambio sicuro dei file sui telefonini, chiamata Zapya (in cinese Kuaiya).

 

Nel 2020 gli Stati Uniti hanno sottoposto a sanzioni, in particolare, il presunto stratega della repressione, Chen Quanguo. Nel 2021 il governo di Pechino lo ha rimosso dalla carica di segretario del partito comunista nello Xinjiang. Al suo posto è arrivato Ma Xingrui, che ha promesso però di continuare ad applicare la linea dura. All’inizio di quest’anno il governo centrale di Pechino ha dichiarato concluso il piano quinquennale, dichiarando di aver raggiunto l’obiettivo di riportare la «stabilità» e proclamando che la minaccia del terrorismo «appartiene ormai al passato». Tutti gli esperti consultati dalle 14 testate giornalistiche hanno però avvertito che non c’è alcuna prova che i centri di rieducazione siano stati chiusi. 

 

I giornalisti che hanno partecipato a questa inchiesta hanno trasmesso una lunga serie di domande alle autorità cinesi, attraverso le ambasciate e il ministero degli Esteri, chiedendo tra l’altro quanti centri o altre strutture detentive siano rimasti aperti e sotto quali denominazioni, se sia ancora valido l'ordine di «sparare per uccidere», o come sia possibile infliggere condanne fino a 25 anni di prigione per una semplice espressione di fede religiosa, come la partecipazione a una preghiera, senza alcuna violenza. Il governo cinese ha risposto alle 23.30 di ieri, 23 maggio, alla vigilia della pubblicazione degli articoli, attraverso una nota firmata da Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese negli Stati Uniti.

 

Ecco la risposta integrale delle autorità cinesi: «I problemi dello Xinjiang riguardano, in sostanza, la lotta al terrorismo, alla radicalizzazione e al separatismo, non i diritti umani o la religione. Di fronte a una situazione grave e complessa di contrasto al terrorismo, lo Xinjiang ha adottato una serie di misure decisive, forti ed efficaci. Il risultato è che lo Xinjiang da diversi anni non ha più assistito ad alcun caso di violenza terroristica. In anni recenti, è stata diffusa una grande quantità di notizie false sul tema dello Xinjiang. Per avere maggiori informazioni, è possibile consultare le repliche già pubblicate sotto il titolo «Fact check: le bugie sullo Xinjiang a confronto con la verità», accessibili in inglese dal sito Xinhuanet.com oppure al sito dell’ambasciata cinese».


Continua la nota di risposta del governo cinese: «La regione dello Xinjiang ora gode di stabilità sociale e armonia, così come di sviluppo economico e prosperità. La popolazione locale sta vivendo una vita sicura, felice e piena di soddisfazioni. Questi sono fatti, che riflettono la realtà della situazione dei diritti umani e amplificano gli effettivi risultati dell’azione politica cinese. Questi fatti sono la più potente risposta a ogni sorta di menzogne e disinformazioni sullo Xinjiang. Con gli sforzi concertati delle genti di tutti i gruppi etnici, noi crediamo che questa regione potrà avere un futuro ancora più luminoso».

 

Le 14 testate che si sono unite in questa inchiesta giornalistica hanno deciso di pubblicare gli articoli lo stesso giorno, martedì 24 maggio, in coincidenza con la visita in Cina dell'Alto Commissario dell'Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, e del suo staff. La missione delle Nazioni Unite, la prima dal 2005, si chiuderà proprio nello Xinjiang.