Sarà un caso, ma che Alessandro Baricco torni a immergersi lentamente nella vita pubblica partendo da una storia che ha a che fare con le cascate sembra assumere un valore simbolico: un torrente che riprende a scorrere dopo il precipizio, in fondo, è una storia di rinascita, come la sua.
Non è un segreto il fatto che lo scrittore torinese sia stato lontano dai riflettori per via della sua malattia, da lui stesso annunciata su Instagram («mi hanno diagnosticato una leucemia mielomonocitica cronica», aveva scritto). Ma ora è arrivato il momento di guardare avanti. «Non ne voglio più parlare», dice. E proprio come un fiume in piena che precipita nel vuoto e poi riemerge, l’autore di “Seta”, “Oceano mare”, “Novecento” e tanti altri libri tradotti in tutto il mondo, torna a occuparsi di ciò che ha sempre fatto nella sua vita: raccontare storie.
In questo caso si tratta di una storia memorabile che viene da lontano, da un testo scritto e pubblicato nel 2014, “Smith & Wesson” (Feltrinelli), una pièce che finalmente è pronta ad andare in scena prodotta dal Théâtre de Liège.
Lo spettacolo - di cui Baricco firma regia e adattamento - debutterà a Napoli, al Campania Teatro Festival diretto da Ruggero Cappuccio (con Cristophe Lambert, Laurent Caron, Lio e Lou Chauvain, il 27 e 28 giugno al Teatro Politeama).
Una storia che ha a che fare con le cascate, dicevamo, quelle del Niagara, dove si incontrano nel 1902 i protagonisti di “Smith & Wesson”, due personaggi abbastanza surreali. Tom Smith, sedicente meteorologo, e Jerry Wesson, pescatore di corpi inghiottiti dalle rapide, un giorno incontrano Rachel, giovane giornalista del “San Ferdinando Chronicle” pronta a tutto pur di fare lo scoop del secolo. La giovane reporter chiede aiuto proprio ai due tipi per riuscire a compiere un’impresa straordinaria: gettarsi giù dalle cascate, chiusa in una botte della birra. «Seminammo immaginazione, e follia e talento», ci dirà nel suo unico monologo la signora Higgins, dopo aver ascoltato quell’incredibile avventura in cui Baricco trascina dentro tutti, perfino il pubblico, che per pochissimi minuti si ritrova immerso nel buio, chiuso nella botte con Rachel, e come lei in preda all’ansia, scandita dal suono di un carrillon che lascia tutti in sospeso, prima di conoscere l’epilogo di quella folle impresa.
Come mai “Smith & Wesson”, scritto otto anni fa, debutta solo ora?
«Non ho scritto molti testi teatrali nella mia vita, ma ogni volta che è capitato l’ho fatto pensando a un attore ben preciso, spinto da un desiderio animale, da un innamoramento. In questo caso avevo pensato a due attori – Jurij Ferrini e Natalino Balasso – e al regista Gabriele Vacis. Poi, nella produzione del Teatro Veneto del 2018, è rimasto solo Balasso dei due interpreti. Diciamo che su questo testo avevo un pensiero in cui non mi sono riconosciuto. Lo spettacolo non vibrava nella maniera in cui lo avevo immaginato io. L’altra lingua che padroneggiavo era il francese e dato che qualche anno dopo il mio testo era stato tradotto in Francia da Gallimard, nel 2021 si è deciso di produrre lo spettacolo a Liegi, in Belgio. Ma eravamo in piena pandemia e pur avendolo allestito non siamo mai riusciti a presentarlo in pubblico. Ecco perché ora debutterà in prima mondiale a Napoli. Poi partirà la tournée internazionale».
Da quale intuizione nasce questa storia?
«Nasce dalla mia ossessione per le cascate del Niagara. In passato queste cascate erano considerate un vero e proprio Paradiso terrestre, erano meta di pellegrinaggi, anche Dickens ne rimase affascinato. Ci sono tante storie che ruotano attorno alla cascate. Ho iniziato a raccogliere appunti sul tema nel 1998, ho letto tanti libri sull’argomento. La cascata è simbolo di caduta, ha un significato quasi mistico, l’immobile che diventa caos, un posto di eccellenza per matrimoni e suicidi. Ho preso spunto da una di queste storie per scrivere la pièce: una signora di 60 anni, una ex insegnante, si buttò nella cascata riuscendo a sopravvivere. Nel testo teatrale è una giovane giornalista a lanciarsi giù. Un’idea che viene elaborata con due personaggi picareschi, simpatici ma nello stesso tempo tristi. Loro tre decidono di sfidare il destino, che significa andare oltre i propri limiti. La quarta figura è più laterale, entra in scena per soli dieci minuti».
C’è un certo sapore beckettiano in questi personaggi…
«Sì, è vero, in “Smith & Wesson” ci sono anche un paio di battute riprese da “Aspettando Godot”. Ma c’è anche il west, la pittura, il fumetto».
L’obiettivo di Rachel è finire in prima pagina. So che non è questo il tema dello spettacolo, ma cosa ne pensa dell’informazione e del modo in cui sta raccontando i nostri tempi, dalla pandemia alla guerra?
«È una stagione modesta per l’informazione, poco ambiziosa. Sia sulla pandemia che sulla guerra si tende a raccontare un mondo monocromatico. C’è un atteggiamento molto spocchioso nei confronti del pacifismo. Io non solo sono contrario all’invio di armi in Ucraina, ma sono contrario alla costruzione delle armi. E trovo grottesco il dibattito che si è sviluppato attorno al tema».
Quale dovrebbe essere il ruolo dell’intellettuale oggi?
«Siamo in una società molto più complessa rispetto a quella degli anni Settanta-Ottanta. Oggi non esiste più la figura dell’intellettuale. Non è utile. Esistono ruoli non definibili, è tutto più caotico, coesistono intelligenze diverse, senza spirito critico. Un intellettuale che fiancheggia un partito politico, per esempio, è qualcosa che non si può vedere. Questa non è libertà».
Tornando alla pandemia, chi fa un mestiere creativo come il suo ha scritto molto di più in quel periodo. Anche per lei è stato così?
«No, io ho scritto molto poco. Mi sembrava di vivere in una giungla. C’erano molte cose da fare, altre cose da fare. Sono stato con la gente, poche persone, ma c’erano. Quando hai successo non vivi davvero la gente. Te ne cibi, la incanti, hai un rapporto malato. Per scrivere ci vuole molta energia e una buona dose di entusiasmo irresponsabile. In quel periodo io non ce l’avevo».
Cos’è per lei la scrittura?
«Scrivere è un sostitutivo. Quando è complicato vivere, scrivere non è così male. Soprattutto se hai talento. Io non ho mai avuto paura della pagina bianca. Ho iniziato a scrivere quando avevo 17-18 anni e da subito ho utilizzato la scrittura come attrezzo per guadagnare facilmente. All’inizio scrivevo articoli. A Torino sono cresciuto nella penombra e i sogni erano legati ai viaggi della mente. Scrivere era il mio modo di viaggiare. Avrei vissuto di più, se avessi scritto di meno. Ma non mi lamento. In questo momento mi interessa meno pubblicare, il gesto dello scrivere è più un mood».
Si può diventare uno scrittore di talento? Per questo ha fondato la Holden?
«Per essere un buono scrittore bisogna sicuramente avere una predisposizione. Scrivere per mestiere è per poche persone. La Scuola Holden è nata per chi è interessato ad avviare uno studio su se stesso, è una formidabile autoscoperta della propria identità. D’altra parte ci sono ottimi scrittori che non hanno frequentato scuole di scrittura».
I teatri li ha sempre frequentati molto?
«Poco a dire la verità. Vado di più al cinema. Ma durante la pandemia, tanto per tornare a quel periodo, avrei mantenuto i teatri aperti per riportarli al centro della vita cittadina. I teatri sono strutture ideali da vivere come spazi condivisi. Tra l’altro io amo molto il teatro come luogo da abitare».
Il suo monologo “Novecento” è stato portato in scena per anni da Eugenio Allegri, un talento raro, scomparso di recente. Lo aveva scritto per lui?
«Sì, lo avevo scritto per Eugenio. Lo avevo visto recitare in teatro e mi aveva colpito questo suo essere mai davvero tragico, mai davvero comico. Non so se esistono altri attori che hanno avuto un livello così alto di immedesimazione con un personaggio. Nella vita aveva assunto delle movenze che erano simili a quelle di Novecento. Lo ha portato in scena, con la regia di Gabriele Vacis, per quasi 30 anni. Ha iniziato a farlo da ragazzo e lo ha interpretato fino a pochi mesi fa. La storia è cresciuta con lui. E negli ultimi dieci anni era nell’età giusta per interpretarlo. Nel 1994 gli avevo detto che probabilmente metà delle cose che diceva non sapeva cosa fossero. Mentre negli ultimi anni il fiume della vita era passato sulle parole e le aveva bagnate. Quindi le conosceva».
Nel 1998 “Novecento” è diventato un bellissimo film girato da Tornatore, “La leggenda del pianista sull’Oceano”.
«Sì, era un buon film. Ma non aveva quel passo di danza, quella leggerezza. Era un punto di vista. Mi è piaciuta moltissimo la versione a fumetti del mio libro: “La vera storia di Novecento” su Topolino, bellissima».
C’è un’altra avventura cinematografica in arrivo: Angelina Jolie adatterà il suo romanzo “Senza sangue”, è felice?
«Moltissimo. Erano 6-7 anni che ci lavoravo. Il libro era stato opzionato da diversi registi, ma Angelina Jolie è sempre stata molto determinata. Lei è rimasta folgorata dalla lettura del romanzo, che ruota attorno alla figura di Nina, sopravvissuta a una tragedia da bambina. Una storia universale, che si lega anche ad una vicenda personale di Angelina Jolie. Lei mi sembra una persona molto in gamba e intelligente. Produrrà e dirigerà il film, ma non lo interpreterà. Naturalmente il cast è ancora tutto da definire».
Sa già quando partiranno le riprese?
«Credo a breve, tra l’altro sarà girato anche in Italia. Nel frattempo sono stato a Los Angeles un paio di volte per incontrare lo sceneggiatore, anche perché il testo ha un impianto teatrale e quindi c’è un problema strutturale. Ma sono molto contento, quando il mondo americano arriva fa sempre piacere. E poi l’incontro fra scrittore e sceneggiatore è utile perché l’autore può aggiungere ciò che non ha scritto».
Quali saranno i prossimi appuntamenti pubblici a cui parteciperà?
«Sarò al Festival di Mantova il 7 settembre, dove terrò una lezione su Beppe Fenoglio. E poi ho in programma un paio di appuntamenti a cui tengo molto in America Latina, a Buenos Aires (12 ottobre) e a Montevideo (18 ottobre), dove farò due “Lezioni sul tempo e sull’amore” e in cui parlerò di Rivoluzione francese, di Tolstoj, Márquez, Omero e del rapporto amore-morte».
Ancora una volta ascolteremo storie…
«Una delle frasi centrali di “Novecento” dice: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”».