Alla vigilia dell’anniversario della vittoria sul nazismo, prevale il pensiero unico. Il capo del Cremlino mobilita il Paese. E il regime «diventa totalitario». Il sociologo Gudkov: «La gente non ha ancora capito le vere conseguenze economiche e politiche di questa guerra»

«Dovevamo pur proteggerci, gli Usa e tutto l’Occidente ci vogliono distruggere». Pavel non ha dubbi: «Sono col presidente al 100%». È una giornata di festa, a Mosca. Tante persone a passeggio. La vita continua, in una normalità surreale. Sulla Piazza Rossa, addobbata per le celebrazioni del 9 maggio, scende il tramonto di una fredda primavera. Pavel è l’unico tra i passanti che ha risposto alle nostre domande. Difficile parlare con i russi della guerra in Ucraina. “È Il modo migliore per non farsi reinvitare a cena”, si dice ultimamente in città. Ma se ci si riesce, sempre più spesso si constata un deciso sostegno alle azioni del Cremlino. Anche da parte di chi non è mai stato un putinista sfegatato e magari all’inizio era contrario all’attacco militare. Come Pavel: «In generale non mi interessa la politica e sono contro ogni guerra, ma ha iniziato la Nato e qualcosa Putin doveva fare. E poi adesso ci sono i nostri ragazzi, là a combattere. Certo che sto con loro».

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La vittoria della propaganda
«È in atto un imbarbarimento della società», dice a L’Espresso il sociologo Greg Yudin, della Scuola di scienze economiche e sociali Msses, o “Shaninka”. «La verità non esiste più: il regime, che da anni fonda la sua legittimità sulla glorificazione della “Grande guerra patriottica” (la Seconda guerra mondiale, ndr) è riuscito a far passare l’idea che la Nato non è che la continuazione del blocco nazista del secolo scorso, e che vuol distruggere la Russia». Si sta creando un pensiero unico. Dopo l’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”, «agisce nel subconscio dei più una tensione a bloccare le cattive notizie e a rifiutare la nozione che Mosca possa essere nel torto», ha scritto su Foreign Policy Andrei Kolesnikov del think tank Carnegie Moscow - che il governo ha da poco costretto alla chiusura. Secondo uno dei più famosi sociologi del Paese, Lev Gudkov dell’istituto Levada, la narrativa anti-occidentale, «trova terreno fertile nello storico senso di inadeguatezza dei russi ed è essenziale per il regime». Senza questo fattore di minaccia esterna «il sistema repressivo e il consenso della società sarebbero insostenibili», spiega Gudkov all’Espresso.

Putin mobilita la Russia
Dopo aver stroncato ogni possibilità di opposizione a suon di leggi draconiane (ma ogni giorno ci sono coraggiosi che protestano e si fanno arrestare), dopo aver messo a tacere i media indipendenti, il regime si è dedicato a mobilitare il Paese. «Stanno ridefinendo l’“operazione militare” come una nuova “Grande guerra patriottica” per coinvolgere totalmente la popolazione», nota Yudin. È lecito pensare che questo possa preludere a una vera e propria dichiarazione di guerra all’Ucraina e quindi alla chiamata alle armi di larghe fasce della popolazione. Un annuncio in merito potrebbe arrivare proprio il 9 maggio, dicono a Londra e a Washington. Il passaggio dalla mobilitazione sociale alla mobilitazione dei cittadini per mandarli al fronte è però tutt’altro che ovvio. «Significherebbe dare più potere ai generali, Putin non si fida e non lo farà», sostiene l’analista militare indipendente Pavel Luzin. «Inoltre le forze armate russe non sono strutturalmente in grado di digerire una cosa del genere». Senza contare il rischio politico: la chiamata alle armi, con tutte le sue brutali conseguenze, potrebbe risvegliare bruscamente i cittadini dal torpore propagandistico. Secondo Gudkov, «si deve considerare che, se il patriottismo finora prevale, la guerra ha tuttavia creato un mix di sentimenti, molti dei quali tutt’altro che entusiastici». Il supporto “sempre e comunque” resta una scommessa, per il Cremlino.

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Il sostegno al regime ha raggiunto il picco
In marzo l’81% della popolazione russa sosteneva l’”operazione militare” in Ucraina, secondo i dati dell’istituto Levada. In aprile si è scesi al 74%. Anche il rating di Putin sembra aver raggiunto il plateau: 81% in aprile contro l’83% di marzo. «Il Cremlino ha avuto successo nel mobilitare la società, ma c’è da chiedersi per quanto tempo la gente potrà continuare a stringersi intorno alla bandiera», commenta Andrei Kolesnikov a L’Espresso. Anche perché «non sono ancora visibili tutte le conseguenze del blocco economico, e quando lo saranno la tendenza potrebbe cambiare». Per ora, i russi pensano che l’auto-isolamento a cui la guerra li condanna sia sostenibile. «È un retaggio del passato sovietico: le abitudini di una società chiusa si riattivano sotto l’influenza della propaganda e della cultura politica restaurata dal presidente”, dice Gudkov. «Il fatto è che la gente non ha ancora capito le reali conseguenze economiche e politiche di questa guerra».

 

Dall’autoritarismo al totalitarismo
Una conseguenza interna già pienamente visibile è l’avviarsi del sistema verso una forma di totalitarismo che Kolesnikov definisce “ibrido”, perché conserva elementi dell’autoritarismo che l’ha preceduto. Conseguenza della mobilitazione seguita all’attacco militare, il “totalitarismo ibrido” non consente più ai cittadini di limitarsi al silenzio-assenso, ma richiede loro di manifestare esplicitamente il sostegno al regime. E si fonda su «una anti-cultura dell’odio verso il nemico esterno e interno», in grado di giustificare le purghe nella società civile, a partire dalla denuncia dei “traditori” e dalla chiusura dei media liberi. Mentre nelle scuole si promuove l’istruzione “patriottica”, anche con lezioni uniche per tutta la nazione. Come quella prevista alla vigilia del 9 maggio e intitolata Syla b pravde, ovvero “Il potere è nella verità”. Che poi è una battuta di un popolare film del 2000 in cui si toccavano molte corde della futura ideologia putinista. Con questi inni alla “verità” di regime, la propaganda sta creando quello che Hannah Arendt definiva “il suddito ideale” dei totalitarismi: la persona per la quale «non c’è differenza fra realtà e finzione, tra il vero e il falso».

Cosa c’entra Nevsky con la birra
Pavel non ci ha dato il suo cognome. Preferisce non essere associato con media di paesi “ostili”. Insieme alla moglie scatta un selfie sullo sfondo delle installazioni per la parata del 9 maggio. Tra queste, una grande effigie di Alessandro Nevsky, il santo ortodosso che nel tredicesimo secolo sconfisse svedesi e cavalieri teutonici e scelse di sottomettersi ai mongoli pur di non collaborare con l’Occidente. Scendendo dalla Piazza Rossa oltre San Basilio verso il fiume, e poi attraversando il ponte su cui nel febbraio del 2015 fu ucciso l’oppositore di Putin Boris Nemtsov, con una breve passeggiata si arriva sulla Bolshaya Polyanka, dove c’è un pub che è stato un punto di ritrovo degli stranieri che vivevano a Mosca e che oggi è assai meno frequentato. All’interno, tra pareti piene di cimeli calcistici e fotografie, tutte le bandiere d’Europa e gli spillatori delle migliori birre d’Irlanda. Alcune delle quali però sono finite. «Colpa della situazione, non sappiamo quando potremo riaverle», spiega il proprietario. «Peccato, ma sopravviveremo anche senza l’Occidente e le sue birre», risponde un cliente. «Ci odiano, c’è la russofobia, faremo a meno di loro», ci dice. Nevsky avrebbe approvato.