L’ex presidente festeggia per le primarie del partito Repubblicano che hanno premiato i “suoi” candidati, mentre la sua popolarità cresce e anche le donazioni. Ma le indagini sui dossier segreti sequestratigli dall’Fbi rischiano di frenare la sua corsa

«Uhlfelder for AG. Trump for prison». Nel weekend scorso un piccolo aeroplano ha sorvolato decine di volte Mar-a-Lago, il resort dell’ex presidente Usa in Florida, con questo esplicito striscione (Daniel Uhlfelder è il candidato democratico ad Attorney general, ministro della Giustizia, dello Stato), che meglio di tanti editoriali sintetizza la lotta politica negli Stati Uniti di oggi. Quando mancano poco più di due mesi alle elezioni di Mid Term (8 novembre) che cambieranno il Congresso (tutti i deputati e un terzo dei senatori), un’America tra le più divise della storia dovrà rifare i conti con Trump, con un partito repubblicano che sempre più somiglia a The Donald e con il futuro della democrazia Usa (per come l’abbiamo sempre conosciuta) a rischio.

 

L’ex presidente fa notizia ormai ogni giorno. Le news rilanciate da giornali, tv e da quel mondo dei social network oggi forse più importante dei media tradizionali in termini elettorali, sono per lui allo stesso tempo negative e positive, rendendo complicata l’analisi agli “esperti” e difficile ogni previsione. Stanno peggiorando perché la perquisizione e il sequestro da parte del Fbi di documenti riservati della Casa Bianca che l’ex presidente aveva nascosto a Mar-a-Lago lo espongono a nuove indagini giudiziarie e a possibili reati anche molto gravi. Perché uno dei suoi fedelissimi, Allen Weisselberg, l’ex direttore finanziario della Trump organization, si è dichiarato colpevole di 15 accuse di partecipazione a uno schema di frode fiscale e ha accettato di testimoniare contro la Trump organization in un processo penale previsto per ottobre. Perché l’indagine sui tentativi di The Donald di fare pressione sui funzionari elettorali della Georgia per annullare i risultati del 2020 ha coinvolto Rudy Giuliani (l’ex sindaco di New York, oggi suo avvocato) e Jenna Ellis, la sua legal advisor.

 

2022 Getty Images

Le buone notizie (per lui) arrivano dal suo partito. Il Grand old party che fu di Abraham Lincoln, Teddy Roosevelt, Dwight Eisenhower, Ronald Reagan e da ultimo dei Bush (padre e figlio), in questa fine estate del 2022 è di fatto scomparso, il partito repubblicano degli Stati Uniti è oggi il partito di Donald Trump. Nessuna accusa di scorrettezza o illegalità, nessuna preoccupazione di fomentare il più bieco estremismo e una violenza anti-sistema, nessuna documentata violazione dello Stato di diritto sembra poter intaccare il suo apparente dominio sulla destra americana. Quando è stato rivelato che l’Fbi stava indagando su Trump per il suo indebito possesso di documenti classificati (compresi alcuni top secret, presumibilmente legati all’arsenale nucleare degli Stati Uniti) la reazione partigiana dei fans di The Donald alle rivelazioni non ha fatto che aumentare il peso di Trump, portando milioni di dollari di donazioni al suo comitato d’azione politica (già pronto per le elezioni presidenziali del 2024) e alimentando le critiche della destra per la presunta «tracotanza dello Stato».

 

Ci sono poi i risultati delle primarie a far sorridere The Donald e i suoi collaboratori. La schiacciante sconfitta della deputata repubblicana Liz Cheney (figlia dell’ex vicepresidente di Bush, Dick Cheney) in Wyoming, ha fatto esultare il Trumpworld, ormai sinonimo del partito repubblicano. In diverse elezioni locali i candidati appoggiati dall’ex presidente hanno vinto facilmente, dei dieci deputati repubblicani uscenti che al Congresso avevano votato per l’impeachment di Trump (per il suo ruolo nell’istigazione dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021) solo in due hanno la possibilità di una riconferma. Liz Cheney ha perso le primarie repubblicane del Wyoming contro Harriet Hageman, un tempo alleato di Cheney e critico di Donald Trump, ma diventato in campagna elettorale sostenitore di The Donald e “negazionista” delle elezioni 2020. Come molti repubblicani, Hageman ha deciso che schierarsi con Trump, anche rinnegando i valori del Grand old party, è un prezzo che vale la pena pagare per tornare al Congresso.

 

La sconfitta di Liz Cheney non è stata una sorpresa, i sondaggi la davano ampiamente battuta. Ha però un valore simbolico rilevante per quei repubblicani “never Trump”, mai con Trump, che speravano in lei per difendere l’ultima barricata di un partito assediato dalla destra populista, razzista e sovranista. «Credo profondamente nei principi e negli ideali su cui è stato fondato il mio partito», ha detto ai suoi sostenitori accettando la sconfitta: «Amo la sua storia e amo ciò che il nostro partito ha rappresentato, ma amo di più l’America». Ha condannato le bugie elettorali di Donald Trump («se ci credete dovete anche credere che decine di tribunali federali e statali che si sono pronunciati contro di lui, compresi molti giudici da lui nominati, fossero tutti corrotti e prevenuti; che ogni sorta di folle teoria cospirativa ci ha rubato l’elezione; e che Trump rimane effettivamente presidente ancora oggi»). Ha messo in guardia contro nuove violenze («dare voce a queste cospirazioni provocherà violenza e minacce di violenza. È successo il 6 gennaio e sta succedendo di nuovo. È del tutto prevedibile che la violenza si intensificherà ulteriormente, eppure lui e altri continuano di proposito ad alimentare il pericolo. Nessun americano patriottico dovrebbe accettare queste minacce o farsi intimidire da esse»).

Un discorso, quello di Liz Cheney, che nel mondo della destra americana di oggi cade nel vuoto. La presa di Trump sul partito repubblicano ha creato una nuova schiera di potenziali legislatori del Gop al Congresso che ripetono come un mantra tutte le bugie dell’ex presidente sulle elezioni del 2020. Secondo un’analisi pubblicata da diversi media Usa, quasi due terzi delle candidature del Grand old party a cariche statali e federali coinvolgono candidati che hanno abbracciato falsità e teorie cospirative sulla precedente elezione, negandone la legittimità. Nel periodo trascorso da quando Trump ha lasciato l’incarico, la sua influenza sui repubblicani è costantemente cresciuta, quando lancerà la campagna presidenziale per il 2024 la maggior parte dell’establishment repubblicano si schiererà docilmente dietro di lui.

 

Per diversi democratici e per quei (pochi) repubblicani che credono ancora nei valori e negli ideali fondanti degli Stati Uniti i guai giudiziari potrebbero però fermare The Donald anche politicamente. È ormai chiaro che il negazionismo elettorale, i discorsi cospirativi di Q-Anon e il giustizialismo della destra radicale sono le linee-guida del Gop a prescindere da ciò che può accadere (penalmente) allo stesso Trump e che il partito e i militanti che sono sorti a sua immagine e somiglianza continueranno a vivere e a prosperare anche senza di lui. Ma è anche possibile che nel momento in cui Trump si rivelasse - con condanne pubbliche - un perdente e un truffatore, molti decidano di non seguirlo più. Dopo la perquisizione di Mar-a-Lago ci sono stati una serie di episodi di violenza e arresti di sostenitori dell’ex presidente che minacciavano violenza sui social media e la vicenda ha provocato molti distinguo e critiche anche nel Trumpworld.

Il caso
Come sta andando l’indagine su Donald Trump e l’assalto al Campidoglio
25/7/2022

I primi segnali arrivano dai vertici. Mike Pence, che di Trump è stato il vicepresidente, si è schierato a favore del Fbi, Alex Jones, leader della destra oltranzista, teorico delle cospirazioni e con un seguitissimo talk-show alla radio sta passando dall’appoggio a Trump a quello a Ron DeSantis, il governatore della Florida che potrebbe essere il vero rivale di The Donald nelle primarie per la Casa Bianca 2024. Chi, all’interno del partito repubblicano, teme che i guai giudiziari di Trump possano condizionare le elezioni di Mid Term, cerca un difficile compromesso tra mostrare fedeltà all’ex presidente e allo stesso tempo tagliarlo fuori dalle decisioni più importanti.

 

Sette anni dopo che Trump è entrato formalmente in politica - conquistando una presa sull’immaginario nazionale che rimane intatta nonostante le sconfitte - il partito repubblicano si è convinto di poter riconquistare facilmente il Congresso (sia la Camera che il Senato). Il crollo degli indici di gradimento di Joe Biden, durato un anno, è stato visto finora come una garanzia di questo risultato, dato che l’attuale presidente è diventato nei sondaggi il leader politicamente più impopolare degli ultimi decenni. Con il finire dell’estate questa sicurezza non c’è più. Per Simon Rosenberg, presidente del think-tank liberal New democrat network, «nell’era di Trump nulla è normale, nulla segue la fisica e le regole tradizionali». Secondo lui, Trump non sta tanto uccidendo i suoi nemici politici, quanto piuttosto distruggendo «il suo stesso organismo ospite, cioè il partito repubblicano». Negli ultimi cicli elettorali nulla ha unito gli elettori democratici più della possibilità di votare contro l’ex presidente, i repubblicani hanno perso il voto popolare in sette delle ultime otto elezioni presidenziali e Trump è stato il primo presidente in carica in corsa per la rielezione dopo Herbert Hoover a far perdere al suo partito la Casa Bianca, il Senato e la Camera in soli quattro anni.