Vuole “Governare come si cresce un figlio”. Come se il Paese fosse un giardino d’infanzia che ha bisogno non di una classe politica all’altezza ma di insegnati di sostegno. Con un’idea della società che prevede concessioni dall’alto e obbedienza dal basso

«L’Italia si può governare come si cresce un figlio». Mentre Giorgia Meloni pronunciava questa frase la settimana scorsa nello studio di Porta a Porta, era difficile non sentirci dentro l’eco delle parole di Silvio Berlusconi quando nel 2004, a una presentazione di un libro di Bruno Vespa, dichiarava convintamente che: «La media del pubblico italiano rappresenta l’evoluzione mentale di un ragazzo che fa la seconda media e non sta nemmeno seduto nei primi banchi». Sono passati quasi vent’anni, ma dietro entrambe queste affermazioni si annida sempre la stessa concezione di Paese, quella di un giardino d’infanzia composto da sessanta milioni di minorenni della democrazia, ritardatə civili che hanno bisogno non di una classe politica all’altezza della situazione, ma di figure genitoriali e insegnanti di sostegno.

 

Suppongo che gli spin doctor di Meloni pensassero di renderla più rassicurante facendola presentare come la madre di cui l’Italia ha bisogno, la genitrice che nutre, ama e difende il sangue del suo sangue fino al punto di sfoderare la ferocia per proteggere i suoi cuccioli.

 

La categoria retorica del maternalismo ha lo scopo di farci sentire piccolə e fiduciosə, prontə a infilare la manina nella stretta protettiva di Giorgia la madre, la donna e la cristiana. Questa visione di sé da parte di Meloni prevede un corrispettivo simbolico da parte nostra: perché il gioco retorico funzioni, i cittadini e le cittadine si devono effettivamente comportare da cuccioli nei suoi riguardi, a cominciare dalla rinuncia alla partecipazione.

 

Quella della grande madre della patria esprime un’idea di governo dove non esiste la democrazia quotidiana, quella che chiede conto delle scelte di governo giorno per giorno, perché in una casa i bambini e le bambine non hanno voce in capitolo: decidono gli adulti.

 

In questo strano gioco di ruoli, dove il governo è un genitore e la cittadinanza incarna la prole, è la gerarchia a comandare. Le richieste sociali diventano concessioni e, se verranno soddisfatte, sarà in cambio di obbedienza: bisognerà fare da bravə per meritarsele. Il dissenso in questa logica non è una componente essenziale del processo democratico, ma diventerà capriccio o ribellione e come tale andrà punita.

 

I servizi di welfare saranno presentati come premura dell’esecutivo, non un diritto che ci spetta per costituzione. L’assunzione di categorie affettive come quella di madre e figlio uccide l’idea di cittadinanza e installa quella del familismo. Dei dodicenni non molto intelligenti, teorizzati da Berlusconi e confermati tali da Meloni, si richiede l’affidamento e si esclude la partecipazione. Affidarsi è un atto infantile e deresponsabilizza, mentre la partecipazione - che per Gaber era sinonimo di libertà - è un atteggiamento civicamente adulto e implica la capacità di assumersi responsabilità.

 

L’Italia non si può governare come si cresce un figlio, perché i figli si crescono in mille modi e, come qualunque psicologo potrebbe testimoniare, non tutti sono buoni solo perché li ha messi in atto la famiglia. Curioso che Giorgia Meloni, a cui così poco piace l’idea di avere un genitore 1 e un genitore 2, si proponga a tutta Italia come il genitore 3.