Occupazione obbligatoria, punizioni per chi si sottrae. E una paga da fame. Mentre i penitenziari si auto-sostengono e macinano profitti, i reclusi reclamano il diritto a un salario e le famiglie si indebitano per sostenerli

Ore di fatica e solo un mucchio di monetine a fine giornata. Per il lavoro che svolgono dentro e fuori le carceri, i detenuti americani guadagnano spiccioli, nonostante producano miliardi di dollari in beni e servizi. E spiccioli non è un eufemismo: la media va dai 13 ai 52 centesimi all’ora. Meno di cinque dollari al giorno. Alcuni Stati - Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Mississippi, Carolina del Sud, Texas - addirittura non prevedono retribuzione per i reclusi. Sono gli schiavi dell’era contemporanea, denunciano gli attivisti che da tempo si battono per una riforma del sistema.

 

«Gli Stati Uniti spesso puntano il dito contro le condizioni di lavoro in altri Paesi, come la Cina, ad esempio, senza tener conto di quello che succede nelle prigioni di casa nostra», dice Jennifer Turner, autrice di uno studio recente, per conto dell’Aclu (American civil liberties union), che ricostruisce la realtà dello «sfruttamento dei lavoratori incarcerati».

 

Nulla di illegale. Nonostante la schiavitù sia stata abolita centocinquantasette anni fa, il tredicesimo emendamento della Costituzione - che nel 1865 sancì la fine della pratica - prevede un’eccezione per chi sia dietro le sbarre a scontare un crimine.

 

«Noi ci battiamo perché i carcerati vengano trattati come lavoratori a tutti gli effetti. Chiediamo che il lavoro sia volontario, con lo stesso salario minimo di chi è libero (in Usa, a livello federale è di 7,25 dollari all’ora, ndr) e le stesse garanzie di sicurezza. È una questione di dignità, non di colpa», continua Turner.

La paga, irrisoria, è stagnante da oltre vent’anni. «Detratte le spese legali, con i pochi soldi che restano, i detenuti devono comprare beni di prima necessità come carta igienica, sapone o cibo da integrare a quelli insufficienti passati dalle istituzioni», spiega Jacalyn Goldzweig, attivista della Legal aid society di New York, l’organizzazione più antica degli Usa che fornisce servizio legale gratuito. «Questi beni vengono venduti a prezzo di mercato o spesso maggiorato. Una famiglia su tre si indebita per aiutare il parente in cella», continua.

 

I detenuti lavorano praticamente gratis, ma producono, secondo Aclu, 11 miliardi di dollari: due riguardano la produzione di beni, gli altri nove i servizi di manutenzione delle carceri. In una popolazione di circa 1,2 milioni di persone dietro le sbarre delle prigioni statali e federali, 800mila hanno un impiego. L’80 per cento si occupa delle strutture: pulizie, bucato, ma anche cucinare, smistare la posta, aggiustare le tubature o ristrutturare parti dell’edificio. Tanti altri, però, lavorano anche all’esterno; sono impegnati come vigili del fuoco a spegnere gli incendi in California, ad esempio, o a ripulire le strade dopo il passaggio di un uragano, come successo in Florida. Molti lavorano negli stabilimenti che producono le targhe delle macchine o le sedie e i banchi usati dagli studenti in aula.

 

Le attività non sono state sospese nemmeno durante la pandemia. I reclusi lavavano la biancheria degli ospedali, operavano nelle camere mortuarie, producevano mascherine e igienizzanti. «Noi però non potevamo usarli», ricorda Wilfredo Laracuente, originario di New York. È uscito dal carcere il 19 luglio 2021, dopo esserci entrato 20 anni fa, quando aveva 25 anni, con una condanna per omicidio e spaccio di droga. «Per otto mesi, non ci è stato permesso di indossare la mascherina per ragioni di sicurezza, ma intanto noi rischiavamo la vita». Oggi, fa parte di 13th Forward, una coalizione impegnata per promuovere la fine del lavoro forzato nelle prigioni.

 

«Inizialmente, ero stato assegnato a Corcraft (le industrie statali presenti in quasi tutti i penitenziari del Paese, ndr). Imbottivamo sedie; non ho mai avuto una protezione, inalavo le esalazioni dei liquidi chimici, non c’era ventilazione adeguata. Tutto veniva venduto a prezzo pieno, mentre io guadagnavo 15 centesimi all’ora. Era il 2002. Dopo sette anni, sono riuscito a raggiungere 45 centesimi. Il loro profitto era immenso, noi invece non riuscivamo a comprare neanche uno snack. Pagavo 33 centesimi per poter inviare un’email». Dopo la fabbrica, un periodo come assistente amministrativo per un’organizzazione non governativa, mentre studiava per laurearsi. «Guadagnavo 28 dollari al mese per un lavoro che a una persona libera ne avrebbe fruttati 40mila all’anno».

 

Esperienza simile, quella di Kathy Heinzel, originaria del Minnesota e arrestata dopo un tragico incidente automobilistico in California per guida in stato di ebbrezza e omicidio colposo: «Ho scontato la pena nel 2020, dopo cinque anni e mezzo dietro le sbarre. Nel periodo finale, ero nel corpo dei vigili del fuoco. L’addestramento non era sufficiente, rischiavamo la vita per un dollaro all’ora e qualche sconto di pena. Impossibile mettere da parte risparmi per il dopo carcere, dove ti aspetta lo stigma. Nonostante la mia esperienza, ho trovato lavoro solo nei magazzini di Amazon. È durata poco, avevo 61 anni e non reggevo. Per fortuna mi ha assunta un amico come segretaria».

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Molti, però, non ce la fanno e spesso rientrano nella spirale del crimine. Non servono statistiche per capire che con qualche dollaro in più sul conto, potrebbe essere più facile comprare un po’ di tempo per provare a reintegrarsi nella società.

 

«Durante le ricerche per l’Aclu, mi ha scioccato vedere quanto le amministrazioni pubbliche si affidino ai detenuti per svolgere lavori vitali. Vengono generati miliardi, gli Stati e il sistema dei penitenziari sono i primi beneficiari. Potrebbero assolutamente permettersi una paga dignitosa», riprende Jennifer Turner.

 

«Loro guadagnano, noi viviamo da indigenti», sintetizza polemico Martin Garcia, ex recluso e oggi membro del Marshall project, organizzazione giornalistica no-profit che si occupa del sistema di giustizia penale: «Anche per le famiglie è difficile. Prima dell’arresto per aggressione di primo grado, ero quello che portava i soldi a casa. Da quel momento sono diventato una spesa. Molti penitenziari prevedono solo due pasti, alle nove e alle cinque. Spesso non basta e hai bisogno di acquistare altro cibo e tutto costa caro. Per un periodo sono stato costretto a comprare l’acqua, perché per via di un batterio, si ammalava chiunque bevesse quella del rubinetto. Lavoravo per un po’ d’acqua», ricorda commosso. Garcia porta alla luce un altro problema fondamentale delle carceri americane, quello del lavoro forzato. «Si agisce sotto minaccia di punizione. Ero assistente insegnante, c’erano giorni in cui proprio non riuscivo ad alzarmi dalla branda. Avevo due figli piccoli a casa, capitava che mi assalisse la tristezza. Se salti il turno, a meno di gravi problemi di salute, ti mandano in isolamento. Perdi tutti i privilegi: non puoi chiamare i tuoi cari, ricevere posta, fare la spesa».

 

In Italia il lavoro dei detenuti non è obbligatorio; quei pochi che riescono a svolgerne uno, sono remunerati, hanno diritto a malattia retribuita e a contributi pensionistici. In Usa, non solo è obbligatorio lavorare, non puoi neanche scegliere la mansione. E non si tratta di essere schizzinosi. «Quando ti assegnano i compiti non badano alla costituzione fisica, all’età», racconta Jane Dorotik, arrestata ingiustamente in California e scagionata dopo 20 anni grazie all’impegno dell’associazione Loyola law school project for the innocent: «Ho visto una donna ramazzare in carrozzella. Se stai male e lo comunichi, capita che ti rispondano dopo 48 ore». Jane Dorotik era assegnata al giardinaggio, tra i lavori meno pagati.

 

Colorado, Utah, Nebraska sono stati i primi ad abolire il lavoro forzato. «Hanno cambiato la loro Costituzione. Stiamo vivendo una presa di coscienza generale», sostiene ancora Jacalyn Goldzweig della Legal aid society: «Alle prossime elezioni di metà mandato, anche in Oregon, Vermont, Alabama e Tennessee, gli elettori saranno chiamati a decidere se abolire questa pratica».

 

Alla moderna schiavitù è intrecciato il filo rosso del razzismo. Gli Stati Uniti sono il Paese con il numero più alto di detenuti al mondo. Gli afroamericani hanno un tasso di incarcerazione cinque volte più alto dei bianchi nelle prigioni statali. In dodici Stati, costituiscono più della metà, nonostante non raggiungano il 13 per cento della popolazione nazionale. «In Arkansas, a un afroamericano era stata assegnata la raccolta del cotone in una piantagione in cui un tempo lavoravano gli schiavi», ricorda ancora l’autrice dello studio, Jennifer Turner: «Si è rifiutato, avrebbe fatto qualsiasi altra cosa. Invece, ogni anno, durante la raccolta viene mandato in isolamento. È un esempio del perché ci battiamo per la fine del lavoro obbligatorio».

 

Cassare la schiavitù per la seconda volta è possibile, sperano i militanti abolizionisti. «Basterebbe che il Congresso si decidesse ad agire», dice determinata Lisa Zucker, che segue gli aspetti legali della New York civil liberties union. «Questo tema è molto difficile da sostenere per due ragioni: i detenuti sono invisibili, non sono una priorità. Inoltre, viviamo in un’epoca in cui si avverte l’incremento della delinquenza e per questo è politicamente pericoloso difendere le istanze dei carcerati. Ma i crimini che una persona ha commesso, non c’entrano: c’è già una punizione. Si tratta della dignità dell’essere umano. Abbiamo bisogno di legislatori coraggiosi, capaci di chiedere a voce alta come sia possibile vivere in un Paese che si definisce la terra della libertà, mentre permette ancora che esistano persone in schiavitù».