L’intervista
Zeruya Shalev: «La scrittura è dolore e fatica, ma la letteratura serve a riparare l’universo»
La narrativa come cura, per superare lutti e conflitti, coltivare la memoria e liberare i desideri e le passioni. Parla la “terapista letteraria di Israele”
Sullo schermo del computer la faccia di Zeruya Shalev, scrittrice israeliana, autrice di bestseller tradotti in una ventina di lingue e che nei suoi romanzi (il più celebre “Dolore”) parla spesso dei traumi e di come i traumi e i lutti veri e immaginari, e quindi altrettanti veri, possono convivere con il desiderio e perfino con la passione; sullo schermo del computer dunque il volto di Shalev è quello di una signora simpatica, sorridente, dagli occhi vivaci e intelligenti. Per lei, lo ripete più volte nel corso di questa conversazione, la letteratura è uno strumento non solo per indagare la realtà in tutte le sue contraddizioni e ambivalenze ma può essere una specie di terapia e perfino un mezzo di riparazione dell’universo, nell’intimo delle persone ma anche su scala dei rapporti fra comunità in conflitto. Ci torneremo.
Intanto, Shalev (che sarà presente al Festival della Letteratura di Mantova) è nata sessantatré anni fa, padre critico letterario fra i più importanti del Paese, madre poeta, ambedue ex militanti di un’organizzazione clandestina armata Lekhi (combattenti per la libertà di Israele), minoritaria nella Palestina ai tempi del mandato britannico, e che riuniva attivisti di estrema destra e di estrema sinistra, considerata terrorista dagli inglesi (la chiamavano la banda Stern) e dai laburisti egemoni allora nella società ebraica. Questo accenno biografico è necessario perché nel suo romanzo in uscita con Feltrinelli, “Stupore”, nella traduzione di Elena Loewenthal, due dei protagonisti sono appunto ex militanti di Lekhi, mentre un’altra è figlia di uno di loro. Il tema del libro: i conti con il lutto, la memoria e la Storia, i rapporti fra figlie e padri e fra due donne di due generazioni diverse, ambedue vittime traumatizzate dello stesso uomo.
La conversazione - non solo e non tanto sul libro, quanto su Israele che nel romanzo è altrettanto presente come le persone e sulla scrittura - comincia con una citazione di Amos Oz (cui fa un omaggio in “Stupore”, ma non lo sveleremo). Oz, dunque, diceva che per essere vero scrittore occorre avere una ferita. Per questo, perché in Israele quasi tutti sono reduci di un qualche trauma, la letteratura è così forte e fiorente? Risposta: «Sì. Israele è una specie di mosaico di traumi. Non solo la Shoah, con i reduci e i loro figli e figlie. Traumatizzati erano pure gli immigrati arrivati prima della seconda guerra mondiale. Avevano alle spalle i pogrom, le manifestazioni di antisemitismo, l’ansia di non poter sopravvivere in Europa. Li attendevano altri traumi: il conflitto con i vicini e con i palestinesi, gli attentati, le esperienze nelle forze armate. E anche la narrazione palestinese è incentrata sul trauma, la Nakba, l’esodo del 1948. Tutto questo significa dolore ma è pure origine di un’enorme energia creativa».
Quando sente la domanda se si considera la terapeuta della nazione ride. Poi dice: «Vorrei citare Nachman di Breslov. Ora, Nachman di Breslov era un rabbino e uno dei più grandi cabalisti di tutti i tempi, vissuto fra fine Settecento e primi dell’Ottocento in quella che oggi è l’Ucraina. Diceva che con Dio occorre conversare come si fa con un intimo amico. Secondo Nachman raccontare è una via verso il riscatto e la Redenzione», spiega Shalev: «Quindi una cura, oggi diremmo terapia. Lui intendeva sia chi racconta sia chi ascolta, io credo però più nella funzione terapeutica della lettura che non della scrittura». Continua: «La scrittura richiede molta forza, anche fisica. Talvolta mi chiedo se la scrittura non sia fisioterapia». Ride di nuovo. Poi si fa seria e spiega la metafora: «Dopo essere stata ferita in un attentato suicida di un palestinese a Gerusalemme nel 2004 ho fatto tanta fisioterapia. Era dolore e fatica. In questo senso la scrittura le assomiglia». Guarda dritta nello schermo: «Ma scrivere è un mestiere meraviglioso. Molti lettori mi dicono che i miei libri li hanno aiutato a capire se stessi e a superare difficoltà». Usa un termine ebraico molto bello: «persone che soffrivano di dolore dell’anima».
Il racconto, quindi, come strategia per sopravvivere – ne sapeva qualcosa Sheherezade delle “Mille e una notte”, che se avesse smesso di raccontare sarebbe morta. In “Stupore” una delle protagoniste sopravvive per poter raccontare le gesta dei suoi compagni di lotta caduti. Un’altra è architetta che si occupa della conservazione di vecchi edifici, fa narrare a quelle costruzioni il loro passato. «Mi chiede cosa è la memoria?», reagisce Shalev: «Noi siamo il popolo della memoria. È la memoria che ci fornisce il senso. Però, quando si vive in questo Paese, talvolta la memoria si impadronisce della vita delle persone e perfino dei romanzi».
Continua: «Faccio un esempio concreto. In questo libro tutti i protagonisti soffrono della sindrome post traumatica. A salvarli è la memoria. Nel caso dell’architetta, lei non ricostruisce il passato ma dà agli edifici un’altra vita in cui racchiude il passato”. Riflette: «La memoria non è nostalgia ma un tentativo di capire in che direzione vogliamo andare e perché». Quando sente dire che la memoria in fondo è immaginazione e rappresentazione di noi stessi, si dice d’accordo. E a questo punto parliamo dell’amore.
In tutti i suoi libri Shalev racconta di amori impossibili, amori che si sfasciano, tentativi di tornare ai vecchi amori, senza successo. E sempre in questo romanzo è citata un’altra storiella di Nachman di Breslov: della fonte e del cuore che si rincorrono a vicenda ma non si incontrano mai perché se il desiderio fosse venuto al compimento il mondo perderebbe l’anima. E allora la passione è bella finché non è appagata? «Ci sono varie interpretazioni di questa storia», risponde Shalev, «ma non penso che passione e desiderio siano più importanti dell’appagamento. È bene che l’amore si compia. Però in varie tappe dell’innamoramento c’è qualcosa di non compiuto che permette all’amore di essere più bello». Riflette sull’idea (sempre di Oz) di quanto l’amore fosse un sentimento egoistico perché tendente a rendere il partner simile a noi. Dice: «Il nucleo dell’innamoramento è spesso egoista ma più ci apriamo e più siamo in grado di dare, meglio stiamo. Capita che il sogno dell’uno diventi l’incubo dell’altro. Nei miei libri lo racconto. Non fossi scrittrice sarei psicologa».
Spiega come in “Stupore” c’è un momento di riconoscimento reciproco del dolore fra le due protagoniste. Lo dice non per raccontare la trama ma per introdurre un altro concetto fondamentale della memoria e spiritualità ebraica, il Tikkun. Tikkun vuol dire riparazione. Spiegazione: durante la creazione dell’universo è successo un incidente, una catastrofe e per questo il mondo è luogo di sofferenza bisognoso della riparazione. Ecco il riconoscimento reciproco fra persone diverse è un Tikkun, il recupero dei torti subiti. Ma allora, il romanzo con i suoi forti accenni biografici è anche un riconoscimento di suo padre? Lui faceva parte, come si diceva, di un’organizzazione che praticava violenza. Erano persone che si consideravano votate alla morte. Giovani che professavano una mistica della redenzione attraverso gesti e retorica estremi. I militanti di quel gruppo clandestino nutrivano molte illusioni e molte fantasie che non si sono avverate, come spesso accade nella storia ai ragazzi radicali. Lei interviene: «Molti di loro pensavano sinceramente di avere una causa comune con gli arabi e contro lo stesso nemico, l’Impero britannico».
Tace, cerca le parole: «È ovvio che si sono sbagliati, è ovvio che hanno commesso errori. Erano ingenui, la storia è andata diversamente, ma non erano solo una banda di terroristi come qualcuno continua a dire». In Israele indipendente alcuni di questi ex ragazzi diventarono attivisti di sinistra altri di destra, dopo la guerra del 1967 alcuni erano contro l’occupazione, altri per una Grande Israele, uno è diventato premier. Ma comunque le loro gesta erano percepite come imbarazzanti, da non citare (e non ne faremo qui la storia). Ecco, Shalev voleva riscattare i miti in cui credevano: sangue versato per la patria, utopia messianica di un nuovo Regno (non proprio democratico) ma anche fratellanza? Voleva entrare nel cuore delle ambivalenze della Storia e farlo risalire alla fonte?
«Io sono cresciuta in quei miti», risponde. Cerca le parole: «Quei miti mi hanno influenzato molto di più di quanto pensassi. Mi imbarazza confessarlo». Tace. China la testa: «La mia scrittura è molto intuitiva e spesso inconscia. Mentre scrivevo cominciavo a fare i conti con la vicenda di mio padre». Tace di nuovo e riprende: «Intanto, finora nessuno ha scritto un vero romanzo sulle vicende di questi giovani e soprattutto non sulle donne combattenti. Ho voluto capire cosa significhi essere una donna dedita alla lotta armata, per la vita e per la morte. Faccio la scrittrice e come scrittrice non volevo essere giudicante. Volevo solo capire e raccontare». E ancora: «Ho restituito la vita a queste persone. Alle donne. La letteratura è un mezzo migliore per affrontare questioni complesse perché usa strumenti che sono l’opposto di quelli della politica. La letteratura racconta, non si schiera».
Si conclude con una domanda. La migliore amica dell’architetta ebrea 50enne del romanzo è un’araba. Ambedue vivono a Haifa, città in cui gli arabi e gli ebrei abitano gli uni accanto agli altri. Shalev, a sua volta, pochi anni fa si è trasferita da Gerusalemme a Haifa, cosa che aveva fatto pure il recentemente scomparso Abraham Yehoshua (per non vivere in un luogo intriso di fanatismo, diceva lui). Il personaggio dell’amica araba è un messaggio politico? «È speranza», è la risposta, e il sorriso torna sul volto della scrittrice. «A Haifa si tocca con mano la possibilità di una vita comune fra ebrei e arabi. Non è idillio, ci sono difficoltà. Ma in fin dei conto è un modello di come potrebbe essere questo Paese. Volevo dare testimonianza concreta delle mie amicizie con gli arabi. Questo aspetto del libro è per me importante proprio per la memoria di quello che qui è successo tra il 1947 e il 1948, l’esodo della stragrande maggioranza della popolazione araba (una storia traumatica). Volevo far vedere che ci sono sempre arabi a Haifa e che questa convivenza è la cosa più bella di questa città». Ride: «Ovviamente, oltre al Monte Carmelo e al mare». Ha toccato la Nakba, l’esodo, la storia più rimossa in Israele. È il Tikkun? «Non saprei. Ma sì, un po’ lo è. È un investimento in un futuro insieme. Per mezzo della letteratura, il mio mestiere». Poi riflette: «Però, attenzione, non possiamo ignorare il fatto che oggi sono gli estremisti a dettare i termini del discorso. E anche che Israele ha ancora tanti nemici. Ma qui siamo nel regno della politica».