Pagano in tasse più di quanto ricevano in assistenza e il loro contributo pesa 9 punti di Pil. In un Paese che invecchia sono una risorsa. E il fatto che stiano diminuendo dovrebbe farci preoccupare, non gioire

Questo non è un tema da affrontare con argomenti sentimentali o retorici. Non c’entrano la solidarietà, la compassione, la giustizia. Anche, certo. Ma prima ancora c’entra la ragione. L’inserimento dei cittadini stranieri nella comunità italiana è interesse di tutti. Sono il motore di questo Paese. Inceppato per anni, da discussioni su porti chiusi, blocchi navali, possibilità di dare ai loro figli la cittadinanza.

 

L’Italia multietnica e il suo valore non è teoria di sinistra ma un dato di fatto censito persino dal rapporto Ocse 2021 che ha evidenziato come «i migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione». Siamo un Paese di immigrazione, con oltre cinque milioni di stranieri residenti (Istat, 2020), in valore assoluto dopo la Germania (che ne ha oltre 10 milioni), il Regno Unito (con oltre 6 milioni) e con un numero di presenze analoghe a quelle francesi e spagnole. Per l’Italia il loro contributo all’economia vale quasi 144 miliardi, il 9 per cento del Pil che è tornato a crescere e così l’occupazione straniera. Il tasso di occupazione degli stranieri è oggi al 57,8 per cento, ancora leggermente inferiore rispetto a quello degli italiani (58,3 per cento). La maggior parte di questa “ricchezza” si concentra nel settore dei servizi, ovvero il comparto che registra il maggior numero di occupati stranieri. Se, invece, osserviamo l’incidenza per settore, i valori più alti si registrano in agricoltura (17,9 per cento), ristorazione (16,9) ed edilizia (16,3).

 

A calcolare l’impatto del lavoro degli stranieri sull’economia italiana è la Fondazione Leone Moressa, nel Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Dalla salute alla scuola, dai servizi sociali all’assistenza, il rapporto calcola i “costi medi” della presenza straniera ovvero l’incidenza sulla spesa pubblica, e la confronta con il gettito fiscale e contributivo generato dagli immigrati. Dati che aiutano «a sfatare il luogo comune secondo cui la presenza immigrata in Italia sia principalmente un costo per lo Stato», spiega il ricercatore della Fondazione, Enrico Di Pasquale.

 

Il nostro è un Paese che sta morendo di vecchiaia. I piccoli centri sono sempre più spopolati, senza lavoro, le scuole chiudono. Gli stranieri in Italia, per la prima volta in vent’anni, sono in calo. Nessuno si ferma abbastanza per restare: hanno accesso limitato alle risorse del welfare e al riconoscimento sociale e politico. Per la propaganda rappresentano il centro di ogni problema. Ma il futuro dell’Italia non è immaginabile senza di loro. I dati si sviluppano come una fotografia in negativo sul saldo che riguarda cittadini giovani e anziani, che negli ultimi vent’anni si è ridotto di 4,6 milioni (da 23,8 a 19,2). Cioè sono sempre meno le persone tra i 20 e i 50 anni, quelle nella cosiddetta età per il mercato del lavoro. Un deficit che la presenza di stranieri ha compensato solo in parte, passando nello stesso periodo da 900 mila a 3 milioni.

 

Se apriamo lo sguardo non solo ai migranti in arrivo via mare e successivamente collocati nei centri di accoglienza in Italia (80 mila presenze a fine 2020), ma a tutti i residenti regolari con cittadinanza straniera (5,2 milioni di persone, di cui oltre 2,2 milioni di occupati) possiamo capire l’importanza della loro presenza vitale.

 

Gli stranieri non sono «un costo», come ripetuto durante la campagna elettorale. Alla sanità sono costati 6,1 miliardi di euro su 130 miliardi di spesa complessiva. Un’incidenza bassa che ha precise ragioni demografiche. Secondo il ministero della Salute la metà dei ricoveri in ospedale riguarda la popolazione con più di 65 anni, dove appena l’1,8 per cento è straniero. E così anche i ricoveri degli immigrati sono più brevi, riguardano i reparti di pronto soccorso e maternità.

 

I figli di stranieri nati nel nostro Paese oggi sono quasi un milione. Nati e cresciuti in Italia ma con il Ghana, la Nigeria e la Somalia nei volti. Sono ragazzi che parlano con l’accento della città che abitano da sempre, che vanno a scuola - quando sono messi in condizione di andarci - coi nostri figli. Nelle classi superano ormai il 10 per cento (877mila nell’anno 2019-2020). Un beneficio per la sostenibilità di un sistema scolastico che altrimenti risentirebbe del calo demografico nazionale, il rapporto Moressa attribuisce alla presenza straniera 6 miliardi di euro di spesa sul totale di 58 miliardi. Inoltre nell’anno scolastico 2019/20 per la prima volta gli alunni stranieri iscritti al liceo superano quelli iscritti agli istituti professionali.

 

Aumentano anche gli imprenditori immigrati, pari al 10 per cento del totale. In dieci anni (2011-21), gli immigrati sono cresciuti (+31,6 per cento) mentre gli italiani sono diminuiti (-8,6 per cento). Incidenza più alta al Centro-Nord e nei settori di costruzioni, commercio e ristorazione.

 

L’immigrazione resta ai fatti una questione di risorse: l’Italia ha incassato dagli stranieri residenti 3,7 miliardi di Irpef, comprese addizionali comunali e regionali, su un volume di redditi dichiarato pari a 27,1 miliardi. Sulla base delle rilevazioni sui consumi che indicano per gli immigrati una spesa prevalentemente di sussistenza, il rapporto calcola 3,2 miliardi di Iva, pari al 3 per cento di tutta quella riscossa in Italia. Altri 3,3 miliardi arrivano dalle altre imposte sui beni di consumo, dai tabacchi ai rifiuti, dall’auto al canone tv. Considerando poi che solo il 14 per cento degli stranieri ha una casa di proprietà, Imu, Tasi, Tari e imposte su luce e gas ammontano a 1,9 miliardi di gettito. Tra rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno (2,3 milioni) e acquisizioni di cittadinanza (131 mila nel 2020) gli immigrati pagano tasse per 200 milioni di euro. Sono una risorsa anche i contributi previdenziali e sociali versati dagli stranieri, che secondo il rapporto Inps 2022 valgono 15,9 miliardi. Tutto sommato, le entrate così calcolate ammontano a 28,2 miliardi, che a fronte di uscite per 26,8 miliardi di euro restituiscono un saldo positivo di 1,4 miliardi.

 

«Per tornare ai livelli occupazionali pre-Covid, l’Italia avrebbe bisogno di circa 534 mila lavoratori – scrive la Fondazione Moressa nel suo rapporto -. Considerando l’attuale presenza straniera per settore, il fabbisogno di manodopera straniera sarebbe di circa 80 mila unità. La restante quota di lavoratori potrebbe arrivare valorizzando donne e giovani».

 

È comune l’equazione stranieri e assistenza familiare – le cosiddette badanti – ma è nella sanità che potrebbero giocare un ruolo fondamentale. Per capirlo basterebbe pensare all’anno conclusosi con l’arrivo a Cosenza dei primi 50 medici cubani che dovranno contribuire a sostenere il deficitario sistema sanitario della Calabria. È una storia che retroillumina l’esercito invisibile di medici e infermieri presente nel nostro Paese, professionisti, già formati, nati e cresciuti in Italia, ma senza cittadinanza. E, dunque, impossibilitati a partecipare ai bandi pubblici degli ospedali. Secondo le stime di Amsi (Associazione medici stranieri in Italia) sono circa 77 mila, tra questi 38 mila sono infermieri e 22 mila medici. In particolare, secondo Amsi, negli ultimi anni un numero alto di professionisti sono arrivati dall’Est Europa ma non avendo ancora la cittadinanza italiana sono costretti a lavorare nel settore privato.

 

Dire no all’Italia multietnica è come opporsi al passare del tempo. I numeri che non conoscono eufemismi e mezzi toni ci dicono che il Paese crollerebbe precipitosamente, chiuderebbero le fabbriche, si bloccherebbero i cantieri edili. Certo, sono criteri di convenienza. I migranti non sono semplicemente forza lavoro. Prima, però, chi governa dovrebbe avere in mente dove stiamo andando e come possiamo salvarci. Mettendo ordine nel lavoro precario con salari adeguati, agevolando il riconoscimento dei cittadini che sono già italiani. Non è politica, è affrontare la realtà. Fare un muro per non vedere la direzione della storia non serve a nulla.

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