Il governatore della Florida è la promessa dei conservatori. Ma deve battere l’ex presidente e riuscire a farsi appoggiare dalla base. Storia di un leader su cui incombe una presenza ingombrante

Quasi sempre la politica è fatta di presenza. In rari casi, invece, è fatta di assenza. Succede, in questi rari casi, che a dettare l’agenda, ad attirare l’attenzione, i timori e le speranze delle persone, dei social e dei giornali siano persone che in teoria non sono neppure candidate. Eppure sono quelle persone, assenti, di cui tutti parlano, che tutti cercano e che tutti vogliono. Una cosa del genere sta succedendo, in queste ultime settimane, negli Stati Uniti. Lì, in quella specie di campagna elettorale permanente che è la politica americana, si parla già delle presidenziali 2024. E soprattutto si parla di Ron DeSantis, governatore della Florida, rieletto in carrozza con un vantaggio di 20 punti in uno Stato in cui, in genere, le elezioni si decidono per un pugno di voti.

Al momento DeSantis non è candidato alla presidenza, né ha parlato esplicitamente di volerlo fare (anche se a febbraio uscirà un suo libro, cosa che, in genere, è prodromica al lancio di una campagna elettorale). Eppure il suo è il nome che tutti guardano e sul quale in molti scommettono come possibile vincitore della prossima corsa presidenziale.

In realtà da qui al novembre 2024, quando si voterà per il presidente, mancano circa 700 giorni e nessun sondaggio è in grado di dire cosa e come succederà, sia perché nessuno è davvero in grado di fare previsioni di così lungo periodo sia perché troppe sono le incognite che ci separano da quella scadenza.

La più corposa di tutte, ovviamente, è cosa farà Joe Biden. Il presidente ha detto che annuncerà entro gennaio se correrà o meno per un secondo mandato. Quando questa decisione arriverà, i primi tratti della prossima campagna elettorale inizieranno a prendere forma, perché una cosa è sfidare un candidato fisiologicamente favorito perché uscente, anche se molto anziano (nel 2024 Biden avrà 82 anni) e un’altra è sfidare un candidato nuovo e privo di un’esperienza di governo come quella della Casa Bianca.

La seconda incognita da sciogliere, invece, riguarda Donald Trump. L’ex presidente, benché abbia sempre raccolto risultati pessimi alle elezioni (sotto la sua guida il Partito Repubblicano ha perso tutte le elezioni per le quali ha corso e solo per il complicato gioco di alchimie del sistema elettorale americano ha vinto quella del 2016) è, di fatto, il moloch e il protagonista assoluto della politica Usa da ormai quasi dieci anni. Dal 2015, nello scenario politico americano, non si parla d’altro che di Trump, l’uomo che vince anche quando perde, l’uomo che è stato guida di un sistema che vuole esplicitamente distruggere.

E soprattutto l’uomo che è riuscito, nello stesso tempo, a distruggere il Partito Repubblicano (un gruppo politico con una storia lunghissima e persino gloriosa) e a impossessarsene, controllando in modo completo la sua base. Oggi Trump, che pure ha indici di approvazione bassissimi (piace solo al 31 per cento degli elettori) è ufficialmente candidato alle primarie del Partito Repubblicano e, dunque, se dovesse vincerle, alla presidenza.

In questo scenario si inserisce la figura di DeSantis, che il New York Times recentemente ha definito «la supernova repubblicana»: è di fatto una specie di Trump senza Trump. Come Trump è estremamente conservatore sia nei temi economici sia su quelli culturali (ed è la cosa che elettoralmente paga di più, perché, a differenza dell’economia, è una cosa che tutti comprendono e sulla quale tutti si sentono in diritto di avere un’opinione). Come Trump strizza l’occhio ai complottisti no vax (è di pochi giorni fa la notizia che abbia lanciato una commissione di inchiesta sui presunti crimini commessi da Pfizer e da altre compagnie farmaceutiche durante la campagna vaccinale); come Trump applica politiche antiimmigrazione talmente dure da sfociare nel cinismo; come Trump ha dichiarato un’esplicita guerra a tutto quello che considera «woke», ossia il grande cappello sotto il quale potremmo far stare tutto quello che viene considerato politicamente corretto, dal linguaggio inclusivo, al riconoscimento del razzismo sistemico.

«Florida is where woke is going to die», è uno degli slogan preferiti di DeSantis. Eppure, anche se la lotta al «woke» è considerata uno dei cavalli di battaglia dell’estrema destra di questi anni e anche se Trump ne è stato (e per certi aspetti ne è ancora) l’aedo, DeSantis ha dalla sua una serie di carte che Trump non ha e che, dunque, lo rendono più forte ed elettoralmente spendibile dell’ex presidente. La principale di queste carte è che DeSantis, semplicemente, non è Trump. Dice le stesse cose di Trump, tocca gli stessi tasti che tocca Trump, vellica gli stessi istinti di sopravvivenza della classe anziana, bianca e poco istruita che vellica Trump, ma non è Trump.

Il fatto che non sia Trump significa che DeSantis non si trascina dietro le mille questioni legali dell’ex presidente (su tutte quella per il suo ipotetico coinvolgimento nell’assalto al Campidoglio), oppure non porta in dote la divisività di Trump, indigesto anche a buona parte dell’elettorato tradizionalmente repubblicano che, infatti, da quando c’è Trump ha smesso di votare o si è turato il naso e ha votato Biden; oppure ancora, dal momento che a differenza di Trump non è pluridivorziato ma vive all’interno di una famiglia estremamente tradizionale, può offrire alla destra religiosa un modello di vita coerente con quello che dice e professa, senza dover fare appello a nessun errore di gioventù.

Ma non è tutto. I vantaggi elettorali del non essere Trump, per DeSantis, non si limitano a questioni personali. Ma anche politiche. Per esempio DeSantis ha saputo giocare molto bene al gatto col topo rispetto al complotto della «Big lie», ossia rispetto alla convinzione di Trump e dei suoi più fedeli che le elezioni del 2020 siano state rubate da Biden. Non è vero, ovvio, ma quella bugia (bizzarro che il nome «Big Lie» valga sia per quello che si vuole denunciare sia per quello che, in sostanza, si perpetra) è da due anni il chiodo fisso della parte più destrorsa del Paese.

Rispetto a questa palese bugia, inventata solo per lenire l’ego acciaccato dello sconfitto Trump, DeSantis si è mosso con accorta ambiguità: non l’ha espressamente sposata, ma non l’ha nemmeno negata. Anzi, le ha lisciato il pelo. Lo ha fatto sia facendo approvare una nuova legge elettorale che istituisce un ufficio apposito contro i «crimini elettorali» e che dunque, per il solo fatto di esistere, instilla il sospetto che negli Stati in cui questo ufficio non c’è, con le elezioni si possa fare un po’ quel che si vuole, e sia sostenendo i candidati alle elezioni di midterm che, invece, della «Big Lie» erano orgogliosi alfieri. Ma, nonostante questo, non ha mai esplicitamente negato la legittimità della presidenza Biden. E anzi, nei giorni drammatici dell’uragano Ian, ha lavorato al fianco di Biden e con lui è andato a visitare le zone colpite.

Allo stesso modo, a differenza di Trump, DeSantis ha saputo coniugare politiche di abbassamento delle tasse e di assistenza sociale ritenute molto efficaci e, ultimo ma non ultimo, ha gestito l’emergenza Covid-19 in un modo che ha pienamente convinto i conservatori, ossia non gestendola. Una decisione che ha portato a circa 70 mila morti, ma anche a quasi un milione di conservatori che si sono trasferiti in Florida.

Eppure, nonostante DeSantis appaia come il santo Graal della destra americana, perché dice le stesse cose che dice Trump, ma è molto più potabile e raziocinante di Trump (oltre che di trent’anni più giovane), e nonostante i primi sondaggi lo diano vincente alle primarie contro Trump e pari alle presidenziali contro Biden, ancora non si sa né se DeSantis si candiderà davvero né se davvero la sua campagna potrà andare bene come sperano i suoi sostenitori.

Sul fatto che si candidi davvero pesano due incognite: la prima è che per farlo dovrebbe prima dimettersi da governatore. E questo, per un politico «tutto d’un pezzo», come lui dice di essere, potrebbe essere un boomerang, perché l’elettorato che lo sostiene e che è stato conquistato dalla sua dedizione alla causa della Florida potrebbe sentirsi tradito, deluso dal suo abbandonare lo Stato che dice di amare più di ogni cosa per inseguire la Casa Bianca. La seconda incognita è DeSantis stesso, che per quanto sia andato benissimo in Florida, non ha esperienza di campagne nazionali.

Sul fatto che possa davvero vincere la presidenza, invece, di incognite ne pensano altre due. Una si chiama Donald Trump e l’altra si chiama Joe Biden. Per quel che riguarda Trump, se l’ex presidente dovesse effettivamente perdere le primarie, è altamente improbabile che abbia voglia di sostenere l’uomo che lo ha sconfitto. Anzi. Probabilmente proverebbe a distruggerlo, sia con le solite armi della campagna denigratoria («DeSanctimonious», lo ha già soprannominato) sia con l’estrema arma della scissione del partito. Nell’ipotesi che Trump, sconfitto alle primarie, decidesse di lasciare il partito e di portarsi via il suo personale elettorato, per DeSantis non ci sarebbero speranze.

Per quel che riguarda Biden, invece, anche se DeSantis dovesse vincere le primarie e anche se Trump decidesse di appoggiarlo, ci sarebbero le elezioni vere da vincere. E la cosa potrebbe essere molto difficile, sia se il candidato fosse Biden (anziano e poco popolare, ma perfetto quando si tratta di raccogliere consenso trasversale) sia se il candidato democratico fosse un altro. Nel campo democratico ci sono molti nomi spendibili. E nessuno di questi deve lottare con l’eredità tossica di Trump.