Le armi non sono la soluzione del conflitto. Né il Paese governato da Benjamin Netanyahu può riuscire a chiuderlo da solo. La convivenza pacifica tra due popoli e due Stati è l’unica via per assicurare stabilità

In Israele sabato scorso è successa una cosa terribile, tanto terribile che non si trovano le parole per descriverla. Si può solo condannare con tutta la forza possibile. Le milizie di Hamas hanno attaccato gente inerme, l’hanno uccisa, violata, presa prigioniera. Non importava la nazionalità, erano ebrei. E questo è bastato a togliere loro il diritto alla vita, alla libertà. Come una volta, 80 anni fa. Come tante altre volte in tante parti del mondo nei secoli passati e in cronache recenti.

 

Ora ci sarà la risposta israeliana. Non sappiamo ancora cosa possa succedere, se il conflitto possa allargarsi e a chi. Nel ’900 due tragiche guerre mondiali hanno portato, almeno in Occidente, quasi 80 anni di pace. Non è che se facciamo la terza, poi ci saranno altri 80 anni di pace. Ci sarà la pace, sì, ma eterna. E il piccolo mondo che resterà, se resterà, non potrà essere più come prima.

 

I terroristi di Hamas hanno ucciso oltre mille ebrei, la riposta israeliana produrrà migliaia di vittime palestinesi; da ambo le parti, molti di loro sono morti innocenti: bambini, donne, vecchi, travolti dall’odio. Mentre scriviamo si attende e si teme la tempesta di fuoco israeliana che ha già cinto d’assedio Gaza tagliando ogni forma di rifornimento: dalla luce all’acqua, ai viveri. Una mossa che secondo l’Onu è proibita dal diritto internazionale. Le diplomazie sono al lavoro, ma è un lavoro duro. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu vuole andare fino in fondo. Ha perso credibilità. Secondo Haaretz, il quotidiano della sinistra israeliana, «sulla sicurezza si basa il contratto sociale tra i cittadini israeliani e lo Stato. E Netanyahu quel contratto non l’ha onorato».

 

C’è da chiedersi però come il Mossad, il servizio segreto considerato tra i migliori al mondo, si sia fatto ingannare come un dilettante da tunnel scavati chissà da quanto tempo e in quanto tempo, da deltaplani, da bulldozer spuntati all’improvviso dal deserto. L’astuzia umana ha battuto l’intelligenza artificiale, oppure qualcosa non torna anche se la storia si è ripetuta: il servizio segreto israeliano venne gabbato anche 50 anni fa esatti, nella guerra dello Yom Kippur, quando si fece prendere di sorpresa dall’attacco di Egitto e Siria.

 

Le diplomazie più responsabili si aspettano una risposta ma non una reazione sproporzionata, come hanno detto gli Usa. Anche perché poi, comunque, in quell’area martoriata ma preziosa per le ricchezze del sottosuolo si dovrà ricostruire faticosamente un processo di pace. Ha ragione il giornalista-analista Roberto Arditti quando dice che «la crescita esponenziale delle economie del Golfo e più in generale del mondo islamico, rende Israele con i suoi 9,5 milioni di abitanti e i suoi 500 miliardi di dollari di Pil una media potenza dell’area (il Pil dell’Arabia Saudita supera i mille miliardi, quello della Turchia i duemila miliardi). Se si combina tutto ciò con gli aspetti demografici si capisce perfettamente che la risposta in termini di confronto militare non è la soluzione. Per quanti miliziani di Hamas possa eliminare l’esercito israeliano, ne stanno crescendo di nuovi con il moltiplicatore. E allora la questione palestinese non può essere risolta dal solo Israele, semplicemente perché essa è troppo grande».

 

E la soluzione l’ha ricordata Elly Schlein in Parlamento: «Israele ha diritto di esistere e ha diritto di difendersi e la convivenza pacifica tra due popoli e due Stati è l’unica soluzione che possa assicurare una pace durevole e sostenibile».