La quota di veicoli del colosso asiatico importati nel nostro Continente aumenta, soprattutto quando si parla di vetture elettriche, e ora Bruxelles indaga sugli aiuti statali e potrebbe alzare i dazi. Ma i produttori non sono tutti d’accordo

C’è un numero che fa impressione e dà l’idea dello smottamento in arrivo. Fra sei anni, dice uno studio della banca Ubs, il 20% delle auto immatricolate in Europa potrebbe essere prodotto in Cina. Una macchina su cinque. E sarà un’invasione completamente elettrica. Le importazioni oggi sono ancora piccole, ma crescono in fretta, ed è questo che sta togliendo il sonno ai legislatori di Bruxelles. Le vendite in Europa sono triplicate negli ultimi due anni. Che cosa c’è dietro? Forse pratiche di commercio sleali?

 

La Commissione Europea ha aperto un’inchiesta. L’obiettivo, spiega Ursula von der Leyen, è capire se i prezzi cinesi sono tenuti bassi grazie a sussidi statali talmente eccessivi da falsare il mercato. I produttori che verranno ritenuti colpevoli potrebbero essere puniti con tariffe molto superiori al 10% attualmente applicato alle importazioni di auto cinesi. Ma sarebbe un errore pensare che la minaccia è solo una questione di prezzo. All’ultima fiera automobilistica in Germania, che si tiene ogni due anni a Monaco, i veicoli elettrici cinesi non sfiguravano affatto in mezzo alle case europee. Qualità ottima, design gradevole. Poi, ovvio, è anche un problema di prezzo. Ad esempio, sempre secondo calcoli di Ubs, la berlina Seal del produttore di Shenzen Byd, un’elettrica di fascia media, gode di un vantaggio di costo del 25% sulle rivali europee. Dunque la Commissione Europea fa bene a indagare e forse troverà pure qualche scorrettezza.

 

È indubbio che i produttori cinesi abbiano goduto di agevolazioni statali, come prestiti a basso costo. Ma il loro vantaggio è anche il risultato di politiche industriali lungimiranti. Il governo fissa degli obiettivi - che possono essere di produzione e di esportazione - poi concede sussidi alle società più efficienti. «C’è il bastone di una regolamentazione competitiva e la carota dei sussidi. Oggi invece l’Europa esprime leggi penalizzanti, chi regolamenta a Bruxelles è lontano dall’industria», afferma Roberto Vavassori, presidente dell’Anfia, l’associazione della filiera automobilistica italiana. «In ogni caso, alzare un ponte levatoio non è una buona soluzione. L’unica ricetta è investire fortemente in tecnologia europea per colmare il gap tecnologico». Quindi niente muri, anche perché il mercato cinese è uno sbocco fondamentale per i produttori di auto tedeschi e a cascata per l’indotto italiano della componentistica. A un aumento eccessivo dei dazi i cinesi potrebbero reagire con rappresaglie, scatenando una guerra commerciale. Detto ciò, è giusto misurarsi in condizioni di parità. Questo significa, spiega Vavassori, che l’Europa dovrebbe almeno pareggiare i livelli di dazi con i nostri rivali. Oggi non è così. L’export europeo di macchine in Cina è soggetto a un dazio tra il 15 e il 25 per cento. L’Europa risponde con una tassa molto più blanda: 10 per cento. «Va cambiata. La parità è la base di un commercio sano». E questo a prescindere dalle eventuali pratiche sleali cinesi che potrebbero venir fuori dall’indagine di Bruxelles.

 

Gli americani hanno adottato un approccio molto più protezionista, lo stesso che usarono contro le auto giapponesi. Trump ha messo una tariffa del 27,5 per cento. Biden ha aggiunto un pacchetto da 370 miliardi di dollari per l’energia verde, riempito di sussidi da spendere in dieci anni in auto e batterie prodotte negli Stati Uniti. I soldi, in teoria, non mancherebbero nemmeno in Europa: costruttori di auto, società di componentistica e governi hanno programmato investimenti per centinaia di miliardi in pochi anni. «Ma è necessaria una politica industriale intelligente», dice Vavassori. Alcune decisioni di Bruxelles, invece, hanno suscitato parecchie perplessità. Le case automobilistiche europee - dicono i critici - verrebbero esposte a una concorrenza eccessiva, in un momento in cui non hanno un vantaggio competitivo sui rivali nei motori elettrici. Così il mercato europeo è diventato molto appetibile per i produttori cinesi. Non solo per i dazi bassi. L’interesse è molto alto anche perché l’Europa ha deciso di vietare la vendita di auto nuove con motore a combustione a partire dal 2035, pur con una deroga - strappata dalla Germania - per i veicoli a carburanti sintetici a base di idrogeno. La scelta europea è fatta per accelerare la transizione verde e gli acquisti di macchine elettriche. Il problema è che così si lasciano praterie ai veicoli costruiti in Cina.

 

Certo, la concorrenza cinese potrebbe avere anche degli aspetti positivi. Un vantaggio per consumatori: macchine di qualità, a prezzi competitivi. Conviene anche all’ambiente perché le auto elettriche inquinano meno. Ed è un pungolo per i produttori europei, costretti – per quanto possibile – a tagliare i costi, innovando e migliorando l’efficienza. Ma non è una sfida semplice. La Cina nel 2023 è diventata il più grande esportatore di auto nel mondo, dopo aver superato il Giappone. Negli ultimi dieci anni ha investito moltissimo in auto a batteria e tecnologie rinnovabili, ottenendo vantaggi competitivi in quasi tutti gli aspetti della catena del valore delle macchine elettriche. La Cina controlla il 60% della produzione globale di batterie. Quest’anno le auto cinesi completamente elettriche hanno rappresentato quasi l’8% delle vendite in Europa di questo tipo di veicoli. Una quota cresciuta in fretta e destinata a espandersi ancora. Ma non tutti sono preoccupati allo stesso modo. Marchi francesi come Renault temono di più la concorrenza nel mercato della auto di massa. Vedono di buon occhio l’indagine della Commissione Europea e un eventuale aumento dei dazi. Le case tedesche forse sono più perplesse. Credono che le auto cinesi non spodesteranno auto di lusso come Mercedes e Bmw, con o senza sovvenzioni. Temono invece che Pechino reagisca male all’inchiesta europea mettendo a rischio i loro profitti.