La cooperazione allo sviluppo è la giusta direzione. E i progetti di parternariato tra molte università e i Paesi africani degli ultimi anni hanno dato ottimi risultati: molti giovani, dopo essersi laureati in Italia, sono tornati in patria per riscrivere il futuro del loro Paese

La ricetta bipartisan più ricorrente nella politica italiana a proposito delle migrazioni in corso dall’Africa, specie in questo momento di criticità acuta, è «aiutiamoli a casa loro».

 

Innanzitutto occorre sgombrare il campo da falsi miti. La maggioranza dei migranti infatti non fugge da situazioni di povertà assoluta ed estrema, proviene da centri urbani e appartiene al ceto medio. Si tratta di persone giovani, sicuramente non ricche, ma nemmeno poverissime, in grado di pagare profumatamente i cosiddetti trafficanti. In sostanza non parte la popolazione che «non ha nulla» ma quella che vuole migliorare la propria condizione.

 

Al netto di slogan propagandistici, la cooperazione allo sviluppo è sicuramente la giusta direzione. Si tenga conto, tuttavia, che l’aumento degli investimenti e del livello di benessere in Africa non comporta automaticamente una riduzione delle migrazioni. Molti studiosi hanno dimostrato, infatti, come il meccanismo funzioni solo nel lungo periodo. Anzi, nel breve periodo, lo sviluppo, il livello di istruzione, l’accesso alle informazioni agiscono addirittura da incentivo allo spostamento. Ma questo non è un male, specie per le necessità demografiche ed economiche del nostro continente.

 

Il tema centrale diventa allora come aiutare questo processo con effetti diversificati di breve e di lungo periodo, come d’altra parte avvenuto all’inizio del secolo scorso quando molti migranti verso le Americhe erano europei e in particolare italiani.

 

La prima risposta è quella di evitare (e combattere) forme di neocolonialismo che rappresentano la causa principale del mancato sviluppo africano. Anche dopo la decolonizzazione, completata solo negli anni Settanta del 1900, gli Stati africani hanno subito i forti interessi delle potenze occidentali, talora attraverso le grandi multinazionali, che hanno realizzato spesso fatturati superiori al Pil degli stessi Paesi, negoziando l’accesso alle materie prime con un rapporto di forza nettamente sbilanciato. Il campione moderno di questo fenomeno è diventato la Cina che si è impadronita delle risorse naturali in cambio di infrastrutture: non solo strade, dighe, ferrovie, porti ma persino stadi per il calcio (tanto che si è parlato di “Stadium diplomacy”, divenuto uno dei capisaldi del cosiddetto soft power cinese).

 

Queste dinamiche neocolonialistiche rappresentano il più grave limite alla crescita effettiva di quei Paesi. Viceversa la strada deve essere quella della formazione in genere e di quella universitaria in particolare, erogata sia in loco, sia attraverso la mobilità, sia soprattutto in via telematica «a distanza».

 

Il nostro Paese è stato in questo campo l’antesignano storico. Nel Medioevo, infatti, la mobilità studentesca e accademica (peregrinatio academica) era incarnata dalla figura dei docenti e soprattutto degli studenti (clerici scholares vagantes) che si spostavano verso le università italiane. I rischi e i disagi patiti in conseguenza di tali scelte diedero origine a iniziative di solidarietà tra studenti fuori sede e alla nascita delle corporazioni studentesche, che si andarono costituendo nella maggior parte degli atenei medievali, strutturate localmente su base etnica, in quanto formate da persone che frequentavano una determinata università provenendo tutte da una medesima entità linguistico-geografica, per designare le quali, a partire dal XIII secolo, si affermò il termine «nationes».

 

Tutto il sistema, nato in modo spontaneo, era fondamentalmente diretto a offrire alle migliori energie una naturale espansione delle capacità e delle abilità. E ciò avveniva all’origine innanzitutto per gli studenti poveri e che non avevano risorse. Nel 1155 fu proprio un’azione di solidarietà tra studenti e maestri dello Studium bolognese a indurre Federico Barbarossa alla promulgazione della Authentica “Habita”, vero e proprio statuto di protezione, di ampia portata geografica, contro i frequenti abusi subiti dagli scholares.

 

Non è possibile evidentemente sovrapporre l’antico con l’attuale per svariate ragioni sociali, economiche e politiche, ma le linee generali sono le stesse.

 

I progetti di parternariato tra molte università e i Paesi africani degli ultimi anni hanno dato ottimi risultati: molti giovani, dopo essersi laureati in Italia, sono tornati in patria per riscrivere il futuro del loro Paese. Un tipo di immigrazione che produce ingegneri, tecnici di laboratorio, medici, infermieri, economisti, farmacisti, architetti, agronomi, veterinari. Questi giovani spesso scelgono settori strategici allo sviluppo della loro terra d’origine e comunque diventano eccellenze, utili anche nel continente europeo. La casistica dimostra che non si tratta certo di privilegiati, visto che tra quelli che ad esempio arrivano in Italia per studiare, solo uno su dieci proviene da famiglie benestanti.

 

Tutto ciò, visti i grandi numeri di cui parliamo, può oggi avvenire attraverso la formazione telematica, erogata a distanza dai migliori professori italiani ed europei, con costi assolutamente sostenibili (anche usando i fondi per la cooperazione) e un enorme know how da trasferire. Insomma le nuove tecnologie, perfezionate durante la pandemia, possono far recuperare alle università l’antica missione, nata in modo spontaneo, della “disseminazione” democratica della formazione, della conoscenza, della ricerca e del sapere finalizzata a una concreta declinazione dello slogan «aiutiamoli a casa loro» anche quando sia finalizzata a una successiva migrazione.