Rispetto alla media europea, il nostro Paese registra tassi di occupazione degli under 35 in possesso di titolo di studio assai bassi. Il problema è che domanda e offerta nel sistema produttivo nazionale sono disequilibrate. Servono interventi per riorganizzare l'economia e la formazione

L’indagine dell’Istat sui «livelli di istruzione e i ritorni occupazionali» fornisce un quadro desolante che, purtroppo, non allarma né chi è al governo, né chi è all’opposizione, né persino i cultori della politica economica. L’aspetto più significativo è costituito dalla differenza, in Italia rispetto alla media europea, nel tasso di occupazione dei giovani under 35 anni in possesso di titolo di studio.

 

In Italia il tasso di occupazione dei diplomati è del 56,5%, in Europa del 76,9%. Quello dei laureati è del 74,6%, contro l’86,7%. Nella classe di età tra 25-34 anni, i laureati in Italia sono il 29,2%, contro il 42% in Europa. Questi dati pongono il problema sia della domanda sia dell’offerta di lavoro e mettono sul proscenio il tema dell’economia reale. Questione messa da parte con il trionfo della finanziarizzazione dell’economia (dalla fine degli anni ’80), non solo dai governi e dai partiti, ma anche dagli studiosi.

 

Sembrava che il rapporto finanza-mercato fosse in grado di risolvere automaticamente il problema dell’adeguatezza dell’apparato produttivo di ciascun Paese all’evoluzione delle forze produttivi mondiali. I dati italiani ci mostrano il contrario. I livelli di istruzione e quelli occupazionali non trovano appropriate risposte neppure con specifici interventi pubblici (sgravi fiscali, contributivi…).

 

In Italia sussiste il problema della dimensione troppo piccola delle imprese. Sono più di 4 milioni quelle con meno di 10 dipendenti e 4 mila con più di 250 addetti. I grandi gruppi industriali, peraltro a prevalenza pubblica, si contano sulle dita di una mano (Eni, Leonardo, Fincantieri) e sono oggetto, secondo le previsioni della legge di Bilancio, di dismissioni parziali per reperire 20 miliardi di euro per far tornare i conti. Una recentissima indagine di Excelsior, che prevede 1,2 milioni di assunzioni per il trimestre ottobre-dicembre 2023, mette il dito nella piaga. Infatti, più di 331 mila assunzioni sono previste nei servizi, 272 mila nella ristorazione e nel commercio, 217 mila per operai specializzati in vari settori, 109 mila per lavoratori non qualificati per servizi e costruzioni e soltanto 74 mila in manifattura e logistica, di elevata specializzazione.

 

L’evoluzione dell’organizzazione produttiva italiana, nata con la ricostruzione industriale, è stata lasciata al laissez faire. In assenza di un dibattito sul destino dell’economia reale le Pmi si sono limitate a guardarsi dal di dentro per non essere travolte dalla dinamica industriale globale. La transizione ecologica e la digitalizzazione richiedono che ci si occupi di come dovrebbe evolvere la nostra struttura economica. In caso contrario, saremo travolti dall’espansione del turismo. Fenomeno che non colma affatto il vuoto lasciato dalla mancata riorganizzazione dell’attività produttiva, fulcro dell’occupazione per i giovani con livelli di istruzione adeguati.

 

I distretti industriali, le filiere produttive della Lombardia, del Nord Est, dell’Emilia-Romagna, delle Marche, della Toscana e di tante vaste aree del Meridione devono diventare oggetto di riflessione e di studio del governo, dell’opposizione e dell’intellighenzia per diventare fucina di azioni pubbliche per l’adeguamento strutturale del sistema economico nazionale. Il nostro apparato produttivo deve uscire dalla nassa della piccola dimensione per cogliere le opportunità della profonda trasformazione mondiale in atto e per dare risposte positive per l’occupabilità di giovani con livello di istruzione crescente.